Una risposta a tale interrogativo è stata recentemente fornita dalla Suprema Corte con la pronuncia n. 13479/2024.
Il Tribunale, avendo ritenuto la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione (per 5 giorni) irrogata dal datore di lavoro non proporzionata rispetto alla gravità dei fatti contestati al lavoratore, ne aveva ridotto “la misura” commutandola in una sospensione di 2 giorni.
Ha impugnato la decisione il datore di lavoro; la Corte territoriale ha deciso il ricorso ritenendo illegittima la sanzione disciplinare perché sproporzionata, negando tuttavia che il giudice di primo grado potesse rideterminare l’entità della sanzione di tipo conservativo.
Per la riforma della sentenza della Corte di Appello di Firenze ha proposto ricorso per cassazione il datore di lavoro.
La Cassazione, muovendo dall’esegesi di un precedente specifico, Cass. n. 3896/2019, ha ribadito che il potere disciplinare è un’estrinsecazione del potere organizzativo del datore di lavoro che trova il proprio fondamento nell’art. 41 della Costituzione: “ne consegue che è precluso al giudice, chiamato a decidere circa la legittimità di una sanzione irrogata, esercitarlo anche solo procedendo ad una rideterminazione della sanzione stessa riducendone la misura”.
Sono solamente due le ipotesi in cui il giudice può esercitare tale facoltà:
Quando invece, come avvenuto nella fattispecie concreta, il datore di lavoro genericamente richiede, in via subordinata, di applicare la sanzione “che sarà ritenuta di giustizia”, senza tuttavia specificare “tipo ed entità della diversa sanzione in ipotesi applicabile”, si è in presenza di una inammissibile “sollecitazione dell’esercizio del potere disciplinare” che però è preclusa al Giudice, chiamato ontologicamente a pronunciarsi sulla sola legittimità della sanzione.