Se c’è abuso di dipendenza economica anche i contratti di affitto di azienda sono nulli

L’abuso di dipendenza economica può determinare la nullità dei contratti di affitto di azienda e di fornitura.

La recente pronuncia della Cassazione (ordinanza 23 ottobre 2024, n. 27420) è giunta a tale conclusione facendo il punto sui presupposti necessari per poter dichiarare la nullità.

Come ricorda la Corte, la l. n. 192/98 vieta l'abuso di dipendenza economica tra imprese tra le quali intercorra un rapporto contrattuale.

La norma definisce la nozione di dipendenza economica come la “situazione in cui un'impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”.

Al comma 3 è sancita la nullità di ogni patto attraverso il quale si realizzi l'abuso di dipendenza economica.

Alla luce del principio costituzionale della libertà d'iniziativa economica, per vanificare un’operazione negoziale, il giudicante deve operare un’adeguata ponderazione di tutti gli elementi di fatto e di diritto, al fine della puntuale ricostruzione della causa concreta degli accordi e di un effettivo accertamento dell'esistenza di una condotta arbitraria ed ingiustificata.

Ne consegue che, ai fini dell’applicazione della norma, è necessario:

  1. con riguardo alla sussistenza della situazione di dipendenza economica, indagare non se sussista una situazione di mero squilibrio o asimmetria di diritti e di obblighi, ma se lo squilibrio sia eccessivo e se l'altro contraente fosse realmente privo di alternative economiche sul mercato (rilevando, ad esempio, la dimensione della società dipendente, che non permetta agevolmente di differenziare la propria attività, o l'avere adeguato l'organizzazione e gli investimenti in vista di quel rapporto);
  2. in secondo luogo, indagare sulla condotta arbitraria contraria a buona fede, ovvero, sull'intenzionalità di una vessazione perpetrata sull'altra impresa, in vista del perseguimento di fini esulanti dalla lecita iniziativa commerciale retta da un apprezzabile interesse economico dell'impresa dominante (quale potrebbe essere, ad esempio, la legittima esigenza di modificare le proprie strategie di espansione, di adattare il tipo o la quantità del prodotto, ma anche di spuntare legittimamente migliori condizioni), in quanto volta, al contrario, essenzialmente a cagionare il pregiudizio altrui.

Pertanto, non ogni situazione di dipendenza economica può dirsi vietata, ma unicamente quella che sia abusivamente sfruttata dalla parte dominante, al fine di trarne vantaggi ulteriori rispetto a quelli derivanti dal legittimo esercizio della propria autonomia negoziale.

Nel caso affrontato nella recente ordinanza citata, la Corte ha ritenuto che il giudice di merito avesse fatto corretta applicazione di tali principi  ritenendo provata una situazione in cui un’impresa era in grado di determinare, nei rapporti commerciali con l’altra, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi sulla base dei seguenti elementi:

  • la stipula del contratto di affitto d'azienda con le relative autorizzazioni all'uso del marchio e dei relativi prodotti, avvenuta a pochi mesi dalla costituzione della società ricorrente;
  • le modalità della locazione d'azienda “senza personale e senza merci”, l'entità del corrispettivo e la previsione della clausola secondo la quale l’azienda resistente “rimane, e rimarrà, libera di prendere qualsivoglia determinazione per quanto concerne l'esecuzione ovvero lo scioglimento dei propri rapporti”;
  • le previsioni di condizioni generali di vendita e di fissazione dei prezzi che lasciavano ampia discrezionalità alla resistente e che attribuivano a quest'ultima, oltre che situazioni contrattuali vantaggiose, penetranti poteri sulle modalità di vendita, percentuali della scontistica da applicare, i periodi promozionali, le linee da promuovere, lo stile degli allestimenti;
  • la circostanza, risultante dai bilanci e dalla documentazione contabile della società ricorrente in fallimento, che l'unico cliente e fornitore era stata la convenuta per tutta la sua esistenza commerciale;
  • le condizioni e qualità dei contraenti (una società di capitali di modeste dimensioni il cui business era rappresentato esclusivamente dai rapporti con un grande gruppo industriale quale era la convenuta).

Questi accertamenti in fatto, non suscettibili di essere messi in discussione in sede di legittimità,  secondo la Cassazione, darebbero conto, oltre che dell'evidenza della situazione di squilibrio, in conseguenza della chiara ed abusiva posizione dominante della contraente forte a fronte della dipendenza economica della contraente più debole, costretta a sottostare a qualsiasi pretesa, anche della impossibilità o della difficoltà della società poi fallita di reperire sul mercato adeguate alternative.

Il ricorso è stato rigettato.

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Maria Santina Panarella
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