La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla ripartizione dell’onere della prova in tema di responsabilità in ambito sanitario, con ordinanza n. 18384/2024, pubblicata il 5 luglio 2024, soffermandosi su alcuni aspetti processuali relativi alle ipotesi di cd. doppia conforme.
Il fatto
Una paziente, sottoposta ad un trapianto di cellule staminali per un Linfoma non Hodgkin presso un’Azienda Ospedaliera, dopo diversi anni dall’intervento conveniva la predetta Azienda e l’Asl di appartenenza, assumendo di aver contratto, durante il ricovero, l'epatite C, e chiedendo il ristoro dei danni asseritamente patiti.
Le decisioni di merito
Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che la patologia non fosse addebitabile all’azienda ospedaliera, e la Corte d’Appello confermava il rigetto della domanda, rilevando peraltro che solo nel corso del giudizio di appello l’appellante avesse introdotto una ipotesi di riconducibilità causale della malattia (mancato controllo del sangue utilizzato per le trasfusioni asseritamente somministrate) diversa da quella dedotta nel corso del giudizio di primo grado (epatite contratta in occasione del trapianto di cellule staminali); la Corte d’Appello, peraltro, ha rilevato che non vi fosse neppure certezza, ed anzi fosse inverosimile, che la paziente fosse stata in quell'occasione sottoposta a trasfusioni, non avendone ella fornito alcuna prova, né attraverso la cartella clinica, né attraverso altra documentazione in ipotesi rilevante.
Con il ricorso per cassazione, la ricorrente dopo aver criticato la valutazione dei giudici di merito per aver ritenuto, conformemente alle conclusioni del CTU, che fosse più probabile che la ricorrente avesse contratto l'epatite in un periodo successivo al ricovero per il trapianto, ha lamentato, tra le altre cose, che, al contrario, la struttura ospedaliera avrebbe dovuto provare che le plurime trasfusioni cui fu sottoposta la paziente erano state eseguite con metodo corretto.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo infondato il motivo “perché teso a ribaltare sulla struttura ospedaliera l'onere probatorio relativo allasussistenza del nesso di causa tra le trasfusioni eventualmente somministrate alla paziente in ospedale in occasione dell'autotrapianto di midollo osseo e la patologia epatica della quale questa è risultata affetta a distanza di anni, affermando che sia la struttura a dover provare di non aver somministrato sangue infetto”.
La Corte ha affermato che la ricorrente non aveva provato il fatto storico di essere statasottoposta a diverse trasfusioni in occasione del trapianto di cellule staminali, circostanza negata dall’azienda ospedaliera; dunque, ha proseguito la Corte, “soltanto ove fosse stato provato il fatto storico della effettuazione delle trasfusioni, e fosse stato accertato, secondo un ragionamento probabilistico, che l'epatite, malattia lungolatente, la cui consapevolezza la paziente aveva acquistato a distanza di diversi anni dal trapianto, era da ritenersi in rapporto di derivazione causale con quelle trasfusioni, la struttura sanitaria sarebbe stata gravata dell'onere di fornire la prova liberatoria, consistente nella dimostrazione di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione della trasmissione di malattie a mezzo del sangue, ed in primo luogo nella attestazione della provenienza certificata di esso da struttura abilitata alla raccolta”.
Neppure gli argomenti della ricorrente sul principio della vicinanza della prova sono stati ritenuti fondati dalla Corte, data la genericità delle argomentazioni peraltro neppure coltivate in appello in uno specifico motivo (la ricorrente non aveva infatti lamentato alcun inadempimento dell'ospedale rispetto all'obbligo di custodia e cura della completezza della cartella clinica: sul valore della cartella clinica incompleta connessa al principio della vicinanza della prova, si veda Cass. n. 16737 del 17 giugno 2024, qui commentata).
Con l’ordinanza in commento, dunque, la Suprema Corte ha ribadito che il paziente, in definitiva, è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, non solo l’esistenza del rapporto contrattuale ma anche il nesso di causalità materiale tra condotta del medico (o, come in questo caso, della struttura sanitaria) in violazione delle regole di diligenza ed evento dannoso, consistente nella lesione della salute (ovvero nell'aggravamento della situazione patologica o nell'insorgenza di una nuova malattia), non essendo sufficiente la semplice allegazione dell'inadempimento del professionista (o della struttura); questi ultimi, per contro, sono tenuti a provare che l’inadempimento sia derivato da causa a loro non imputabile solo dopo che il creditore-danneggiato abbia fornito la suddetta prova (Cass. 29315/2017; Cass. 3704/2018; Cass. 26700/2018, Cass. 28991/2019).
Questioni processuali
Se, da un lato, l’ordinanza in commento non apporta elementi di particolare novità in relazione ad un orientamento ormai decisamente consolidato sull’onere della prova in materia di responsabilità medica (si vedano, da ultimo, Cass. n. 27151/2023; Cass. n. 13107/2023) essa risulta interessante laddove affronta il tema della inammissibilità del primo motivo di ricorso in ipotesi di c.d. “doppia conforme”.
Come è noto, la riforma del 2012, ha, infatti, da un lato, riscritto, il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., dall’altro, ancor più incisivamente, ha escluso la ricorribilità per cassazione ex art. 360 n. 5 nuovo testo avverso la sentenza di appello che abbia confermato la decisione di primo grado (ipotesi di c.d. “doppia conforme”; a seguito della riforma introdotta dal D. Lgs. 149/22, com’è noto, la stessa regola è sancita ora dall’art. 360, penultimo comma c.p.c.): cosicché anche l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso sarebbe sostanzialmente indifferente ai fini della criticabilità della decisione.
La Corte di Cassazione dopo aver rilevato che, in siffatte ipotesi, il ricorso è inammissibile “se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 5947/2023; Cass. 7724/2022)”, ha specificato che ricorre l'ipotesi di «doppia conforme» non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando “le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice”.
E’ dunque sufficiente, sottolinea la Corte, che i Giudici di merito seguano “la stessa linea argomentativa”.