Un lavoratore conviene in giudizio il proprio datore di lavoro al fine di ottenere l’accertamento del lamentato demansionamento ed il conseguente risarcimento del danno. Nell’ambito di tale giudizio, il lavoratore produce una registrazione fonografica, acquisita senza il consenso degli interessati. A fronte di tale condotta, il datore di lavoro può legittimamente irrogare la sanzione del licenziamento per giusta causa?
Secondo una recente pronuncia del Tribunale di Nola (Tribunale di Nola, ordinanza del 28 dicembre 2020), il provvedimento espulsivo così motivato non è solo ingiustificato, ma è anche ritorsivo.
Il caso oggetto della pronuncia
Nella vicenda affrontata dal Giudice del Lavoro di Nola, i fatti contestati al lavoratore consistevano nell’aver egli “registrato, durante l’orario di lavoro e sul luogo di lavoro, conversazioni avute con i superiori, senza il consenso di quest’ultimi” e nell’aver depositato in giudizio registrazioni “inutili e sproporzionate rispetto al diritto fatto valere”, poiché la pretesa azionata avrebbe potuto essere dimostrata dal ricorrente anche con altri mezzi di prova. Inoltre, la notizia dell’avvenuta registrazione, appresa dai superiori, secondo la tesi del datore, avrebbe pregiudicato il regolare funzionamento dell’attività e determinato, nell’ambiente di lavoro, un clima di diffidenza e di scarsa collaborazione.
Al contrario, le contestazioni mosse al lavoratore non riguardavano il contenuto della registrazione, né l’utilizzazione delle stesse per finalità diverse ed eventualmente illecite.
Pertanto, i fatti contestati al dipendente non erano stati ricondotti dal datore di lavoro ad una specifica violazione delle previsioni del contratto collettivo di lavoro, bensì, attraverso la lamentata violazione della normativa vigente in materia di riservatezza dei dati personali (d. lgs. n. 196/2003 e d. lgs. n. 101/2018), alla violazione del generale obbligo di correttezza e buona fede.
Sennonché, secondo il Giudice, il lavoratore avrebbe posto in essere una condotta legittima, pertinente alla propria tesi difensiva e non eccedente le sue finalità. Trattandosi di un comportamento conseguente al legittimo esercizio di un diritto, secondo il Tribunale, sarebbe esclusa non solo la ricorrenza di un illecito penale, ma anche di quello disciplinare.
In quest’ottica è stato reputato rilevante il fatto che il lavoratore avesse effettuato le registrazioni all’unico scopo di produrle poi nel giudizio per far valere un proprio diritto.
Il bilanciamento tra tutela della riservatezza e tutela giurisdizionale
A questo proposito, si segnala che anche la Corte di Cassazione ha già avuto modo di affrontare tali questioni, pronunciandosi proprio in relazione alle registrazioni video e fonografiche di un colloquio tra presenti effettuate dal lavoratore.
Nell’ambito di tali pronunce, la Suprema Corte ha dichiarato di voler dare continuità all’orientamento – formatosi sotto la vigenza dell’art. 24, comma 1, lett. f) del d.lgs. n. 196/2003, poi abrogato -
secondo il quale l’utilizzo ai fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente ed i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio. Anche la Corte di Cassazione ha infatti affermato che “è legittima, ed inidonea ad integrare un illecito disciplinare, la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto” (Cass., 10 maggio 2019, n. 12534).
Già in precedenza la Corte si era pronunciata nel senso della legittimità delle registrazioni effettuate dai lavoratori: Cass. 27424/2014, infatti, aveva affermato che “la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel ‘genus’ delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 cod. civ., ha natura di prova ammissibile nel processo civile, sicché la sua effettuazione, operata dal lavoratore ed avente ad oggetto un colloquio con il proprio datore di lavoro, non integra illecito disciplinare”.
Come si accennava, l’art. 24 d. lgs. 196/2003 è stato abrogato dal d.lgs. n. 101/2018; tuttavia, i principi sottesi al suddetto orientamento non paiono essere venuti meno, atteso che, nell’ambito del quadro normativo ora in vigore, risulta comunque sussistente il bilanciamento degli interessi come sopra descritto (si veda, ad esempio, l’art. 9 lett. f) del GDPR che esclude il divieto di trattamento dei dati sensibili allorquando il trattamento sia necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria).
Il carattere ritorsivo del licenziamento
Nel caso affrontato dal Tribunale di Nola nell’ordinanza sopra richiamata, il licenziamento è stato reputato altresì ritorsivo sulla base di una serie di ‘indizi’ della natura, appunto, ritorsiva, del provvedimento.
In particolare, è stato considerato rilevante il fatto che la condotta contestata integrasse l’esercizio di un diritto e che la contestazione disciplinare fosse avvenuta in diretta consecuzione temporale con la conoscenza da parte della Società datrice della produzione della registrazione nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento del demansionamento.
Per completezza, si rammenta che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, assimilabile a quello discriminatorio, costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 21194/2020, nonché Cass. n. 9468/2019 e Cass. n. 23583/2019).
Nessun licenziamento, dunque, per il lavoratore che ha effettuato registrazioni di conversazioni avute con i propri superiori, senza il loro consenso, al fine di tutelare il proprio diritto di difesa.
Questo, ovviamente, se la condotta si mostra pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità.