La Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, con ordinanza n. 39762 del 13 dicembre 2021 ha statuito che, nella quantificazione del risarcimento del danno, conseguentealla illecita riproduzione di tre articoli di cronaca, tratti da testate locali, e inseriti nel best seller «Gomorra», il Giudice del merito avrebbe dovuto tenere conto degli utili realizzati in violazione del diritto d'autore e non limitarsi a valutare i diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l'autore della violazione avesse chiesto al titolare  l'autorizzazione  per  l'utilizzazione delle opere.   

1. Il caso

La vicenda processuale trae origine dalla domanda della casa editrice di una testata locale, avente ad oggetto l’accertamento della violazione da parte dello scrittore Roberto Saviano del diritto d’autore in relazione alla illegittma riproduzion nel testo dell’opera «Gomorra»  di alcuni articoli su quotidiani editi dall’attrice. Conseguentemente quest’ultima ha chiesto risarcirsi tutti i danni di nautra patrimoniale e non patrimoniale.

L’ordinanza in commento interviene a seguito della pronuncia, resa in sede di rinvio dalla Corte d’Appello di Napoli che – sollecitata dalla Cassazione, in funzione rescindente, a indicare specificamente i criteri di liquidazione del danno da lucro cessante – aveva ritenuto appropriato  il criterio di liquidazione del c.d. «prezzo del consenso» o «royalty virtuale» rapportato al momento della richiesta negli anni 2004-2005 e quindi senza tener conto del successivo enorme successo realizzato dal libro “Gomorra”. In particolare, la Corte territoriale, a quanto è dato desumere dal riassunto dell’antefatto processuale, aveva attribuito rilievo alla limitata circolazione dei due giornali ove gli articoli erano stati la primavolta pubblicati e aveva affermato l'iniquità di attribuire un beneficio economico al danneggiato, facendo evolvere il risarcimento in un inammissibile danno punitivo.

La casa editrice ha proposto ricorso per cassazione, desumendo, tra l’altro, la violazione dell’art. 158 L. 22 aprile 1941, n. 633 (Legge sul Diritto d’Autore, l.d.a.) che individua i criteri di determinazione e quantificazione del danno conseguente al plagio dell’opera intellettuale.

2. I criteri di liquidazione del danno da violazione del diritto d’autore

A norma dell’art. 158 l.d.a., così come modificato dall’art. 13 D.Lgs. 140 del 2006 (che ha recepito la Direttiva 2004/48, c.d. "Direttiva Enforcement"), “Il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell'articolo 2056, secondo comma, del codice civile, anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto. Il giudice può altresì liquidare il danno in via forfettaria sulla base quanto meno dell'importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l'autore della violazione avesse chiesto al titolare l'autorizzazione per l'utilizzazione del diritto”.

L’ordinanzain commento, richiamando i principi affermati dalla recente ordinanza n. 21833 del 29 settembre 2021, chiarisce che:

a) il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell'art. 2056 comma 2 cod.civ. ossia «con equo apprezzamento delle circostanze del caso» dunque ancora una volta ex art. 1226 cod.civ. cui si aggiunge però l'indicazione di un  parametro  esplicito  relativo agli «utili realizzati in violazione del  diritto»;

b) è prevista la possibilità di liquidazione «in via forfettaria sulla base quanto meno dell'importo dei diritti che avrebbero  dovuto essere riconosciuti, qualora l'autore della violazione avesse chiesto al titolare l'autorizzazione per l'utilizzazione del diritto».

L’art. 158 l.d.a., a giudizio del Supremo Collegio, pur prevedendo due criteri altenativi di liquidazione del danno senza fissare un ordine di preferenza, individua nel criterio del c.d. «prezzo del consenso», di cui al terzo periodo del secondo comma, la soglia minima di liquidazione equitativa del danno da violazione del diritto d’autore.

Ciò premesso, la Corte di Cassazione muove da un’interpretazione del diritto nazionale armonizzata con la Direttiva Enforcement, la quale, all’art. 13, pretende che l'entità del risarcimento da riconoscere al titolare tenga conto di tutti gli aspetti pertinenti quali la perdita di guadagno subita dal titolare dei diritti o i guadagni illeciti realizzati dall'autore della violazione e considera solo come alternativa la parametrazione dell'entità dal risarcimento alla  royalty virtuale (o c.d. «prezzo del consenso»).

In questa prospettiva, e nell’ottica dell’esigenza di un pieno ed effettivo ristoro del danno subito dal titolare del diritto d’autore, la pronuncia in commento attribuisce al criterio del «prezzo del consenso» natura sussidiara e residuale, non utilizzabile a fronte dell'indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi.

3. Le conclusioni

Fatte queste premesse, l’ordinanzain commento ritiene che il Giudice del merito, nell’applicare il criterio del c.d. «prezzo del consenso», senza tenere conto degli «utili realizzati in violazione del  diritto», in assenza di adeguate ragioni giustificatrici, è incorso in una falsa applicazione dell’art. 158 l.d.a.

La pronuncia afferma quindi il seguente principio di diritto: «In tema di diritto d'autore, il risarcimento del danno da lucro cessante spettante al titolare del diritto violato deve essere completo ed effettivo e deve essere liquidato in via preferenziale dal giudice ai sensi dell'art.158, comma 2, l.d.a., interpretato in conformità all'art.13 della Direttiva 29.4.2004 n. 48- 2004/48/CE, del Parlamento Europeo e del Consiglio sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, con equo apprezzamento di tutte le circostanze del caso e tenendo anche conto degli utili realizzati in violazione del diritto e solo, in via sussidiaria e residuale, nei casi in cui ciò non sia possibile o riesca disagevole, in via forfettaria sulla base dell'importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l'autore della violazione avesse chiesto al titolare  l'autorizzazione  per  l'utilizzazione   del  diritto  (cosiddetto «prezzo del consenso»)».

La rimozione del profilo senza giustificato motivo configura un inadempimento di Facebook. Su queste premesse, il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 10 marzo 2021, ha condannato il gestore del social network a risarcire all’utente il danno di natura non patrimoniale subito dal medesimo.

La fattispecie trae origine dal ricorso di un professionista, iscritto al social network Facebook, con una pagina personale e due pagine collegate, e relative a temi di proprio interesse, che deduce l’illegittima rimozione dei predetti profili senza alcuna spiegazione. Secondo le prospettazioni dell’attore, la reale motivazione sarebbe stata da rinvenire nella ritorsione conseguente ad una iniziativa giudiziale intrapresa dallo stesso utente contro Facebook, nella sua qualità di avvocato difensore di altro utente.

Mediante l’iscrizione al servizio on line l’utente e Facebook stipulano un contratto a prestazioni corrispettive, in forza del quale il gestore offre, a titolo gratuito, un servizio, avente ad oggetto la fornitura di software che consentono agli utenti di connettersi fra loro e condividere contenuti multimediali, a fronte dell’autorizzazione dell’utente all’utilizzo dei dati personali, sfruttati per offerte commerciali calibrate sugli specifici interessi dei loro destinatari. Stante il valore economico e commerciale di tali dati, dunque, non è revocabile in discussione la patrimonialità della prestazione oggetto dell’obbligazione, ai sensi dell’art. 1174 c.c.

L’ordinanza in commento passa in rassegna le condizioni generali di contratto (c.d. Condizioni d’uso), rilevando che le stesse prevedono il diritto di recesso ad nutum, «soltanto per giuste cause indicate nel regolamento contrattuale, con obbligazione per il gestore di informare l’utente delle ragioni della rimozione», essendo peraltro previste «opzioni a sua disposizione per richiedere una revisione, a meno che ciò esponga Facebook o altri a responsabilità legale, danneggi la community di utenti Facebook, comprometta o interferisca con l'integrità o il funzionamento di servizi, sistemi o Prodotti di Facebook, siano presenti restrizioni dovute a limiti tecnici oppure ove sia vietato farlo per motivi legali». 

Ne consegue che «la rimozione di un profilo personale o di una pagina a esso collegata in carenza di qualsiasi violazione delle regole contrattuali da parte dell’utente, e in carenza di qualsiasi informazione all’utente delle ragioni della rimozione, configura un inadempimento del gestore, inquadrabile ai sensi dell’art. 1218 c.c.».

Così ricostruita la fattispecie contrattuale, il Tribunale rileva come, a fronte dell’allegazione dell’utente dell’avvenuta rimozione del proprio profilo senza alcun motivo, e dunque in violazione delle obbligazioni assunte da Facebook con il perfezionamento del contratto, è onere del gestore, sulla base dei generali criteri di riparto dell’onere della prova, dimostrare la sussistenza di una ragione, riconducibile a quelle contrattualmente previste, tale da giustificare la rimozione del profilo.

Nel caso di specie, il Tribunale ha desunto l’assenza di una giusta causa di recesso dalla stessa condotta del gestore che, in violazione del canone di buona fede, ha «distrutto tutta la documentazione relativa al contratto», così rendendo impossibile la verifica dei motivi alla base della decisione di eliminare i profili del ricorrente.

Su queste premesse, l’ordinanza in commento ha quindi ritenuto accertato che «la resistente si sia resa oggettivamente inadempiente, senza che quest’ultima nel corso del giudizio abbia provato ai sensi dell’art. 1218 c.c. che tale inadempimento sia stato dovuto a una causa oggettiva a lei non imputabile o abbia allegato e dimostrato una motivata causa di recesso o di risoluzione del contratto, sicché è provata la responsabilità contrattuale della resistente».

Il Tribunale ha poi ritenuto provata, in assenza di specifica contestazione da parte della società convenuta, la natura discriminatoria del provvedimento assunto da Facebook, desumibile dalla connessione temporale tra l’assunzione da parte dell’utente, nella sua qualità di avvocato, del mandato defensionale in un giudizio contro la stessa Facebook, e comunque frutto di una valutazione arbitraria, da parte della medesima, del contenuto politico ed ideologico dei post pubblicati dal ricorrente.

Il gestore avrebbe così leso gravemente diritti fondamentali della persona, nella misura in cui i social network sono assurti a luogo nel quale nel quale si proietta l’identità personale dell’individuo, ed ove si intessono relazioni interpersonali e si esercita il diritto costituzionale all’espressione del proprio pensiero.

Pur incombendo sul danneggiato l’onere di provare il danno, il Tribunale ritiene, sulla base del principio di vicinanza della prova, che, nella fattispecie, tale onere debba essere invertito, «dal momento che tutte le prove erano nella piena disponibilità della (sola) resistente, mentre sono del tutto precluse al ricorrente, e che la resistente ha deciso di impedirne la produzione in giudizio».

Pertanto, il Giudice bolognese ha concluso che l’esclusione, immotivata, dal social network è suscettibile di cagionare «un danno grave, anche irreparabile, alla vita di relazione, alla possibilità di continuare a manifestare il proprio pensiero utilizzando la rete di contatti sociali costruita sulla piattaforma e, in ultima analisi, persino alla stessa identità personale dell’utente, la quale come noto viene oggi costruita e rinforzata anche sulle reti sociali. Tal danno non è facilmente emendabile creando un nuovo profilo personale e nuove pagine, atteso che resta la perdita della rete di relazioni, la quale viene costruita dagli utenti del social network con una attività di lungo periodo e non semplice».

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