Con messaggio n. 4301 del 17 dicembre 2024, l’INPS ha fornito chiarimenti sui termini di prescrizione e decadenza applicabili al congedo di paternità obbligatorio di cui all’art. 27 bis del d.lgs. n. 151/2001.
Quanto al termine di prescrizione, l’Istituto ha ricordato che, in deroga al regime ordinario disposto dal codice civile, si applica il termine annuale di cui all’articolo 6, ultimo comma, della legge 11 gennaio 1943, n. 138, previsto per l’indennità di malattia.
L’applicazione del termine di prescrizione breve troverebbe fondamento nella giurisprudenza di legittimità che riconosce un collegamento, sul piano normativo, tra l’indennità di paternità e di maternità e tra quest’ultima e l’indennità di malattia, in base al richiamo operato dall’articolo 29, comma 2, del T.U. sulla maternità e paternità all’articolo 22, comma 2, del medesimo testo unico.
Con riferimento al profilo della decadenza, viene confermata l’applicazione del termine decadenziale sostanziale annuale di cui all’articolo 47, terzo comma, del D.P.R. 30 aprile 1970, n. 639.
Questa soluzione sarebbe confermata dalla ratio legis della misura, anche alla luce della natura intrinseca di tale prestazione, quale forma di previdenza non pensionistica e a carattere temporaneo. Peraltro – rammenta l’INPS - avuto riguardo alla funzione della misura in oggetto, volta anche a perseguire una più equa ripartizione delle responsabilità genitoriali nell’ambito della famiglia e la parità di genere in ambito lavorativo, il termine di un anno si armonizza con la previsione normativa, in ambito di decadenza, al quale è soggetto il congedo di maternità.
Il testo integrale è disponibile sul sito ufficiale.
Il termine di decadenza previsto dall’art.32, co. 3 lett. B) della l. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) si applica ai rapporti di agenzia?
La Corte di Cassazione (ordinanza n. 23348/2024 del 29 agosto 2024) ha confermato la risposta che aveva già dato con la precedente pronuncia n. 8964/2021 non ritenendo di doversi discostare da quanto lì affermato.
Si rammenta che la norma citata prevede che “Le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre: … b) al recesso del committente nei rapporti di collaborazione continuata e continuativa, anche nelle modalità a progetto, di cui all’articolo 409, numero 3), del Codice di procedura civile”.
La Corte ha dapprima richiamato la ratio di tale disposizione. La finalità – secondo la Cassazione - è quella di “contrastare pratiche di rallentamento dei tempi del contenzioso giudiziario che finirebbero per provocare una moltiplicazione degli effetti economici in caso di eventuale sentenza favorevole e di stabilizzare le posizioni giuridiche delle parti in situazioni in cui si ha l’esigenza di conoscere, con precisione ed entro termini ragionevoli, se e quanti lavoratori possono far parte dell’organico aziendale”.
Tuttavia, trattandosi di una limitazione temporale per l’esercizio dell’azione giudiziaria di non poco conto, tanto da dovere ritenere che la norma oggetto di esame abbia carattere di eccezionalità, si imporrebbe una interpretazione particolarmente rigorosa della norma.
E tale rigorosità - precisa la Corte - dovrebbe confrontarsi necessariamente con i limiti previsti dalla nostra Costituzione (artt. 2, 111 e 117), dal diritto euro-unitario (art. 47 della Carta di Nizza, in considerazione della natura della controversia che riguarda il tema del rapporto di agenzia disciplinato dalla direttiva comunitaria n. 653 del 1986) e dal diritto convenzionale (artt. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), nel senso che “occorre pur sempre tenere conto dei possibili profili di illegittimità con riguardo ad un ambito applicativo di tipo estensivo o analogico della norma in questione”.
Sempre sotto il profilo esegetico della legge, l’ordinanza ha ribadito che l’interpretazione letterale è il primo criterio interpretativo e, solo quando questo non sia chiaro ed univoco, il significato e la connessa portata precettiva possono essere integrati con l’esame complessivo del testo e della mens legis.
Su tali premesse, la Corte ha affermato che, avuto riguardo sia al dato letterale che a quello logico-sistematico, il legislatore ha voluto escludere il rapporto di agenzia dall’ambito operativo della decadenza ex art. 32 co. 3 lett. b) della legge n. 183 del 2010.
Con specifico riferimento al profilo letterale, i giudici di legittimità hanno evidenziato che la dottrina e la giurisprudenza, relativamente all’art. 409 n. 3 c.p.c., hanno definito le fattispecie ivi previste come rapporti parasubordinati, così facendo intendere che, nella categoria generale della parasubordinazione, rientrino le varie tipologie contrattuali ivi menzionate. Tali fattispecie si porrebbero, quindi, rispetto alla categoria della parasubordinazione, in un rapporto di species a genus e questo, secondo la Corte, esclude la possibilità di assimilarle terminologicamente.
Orbene – ha osservato la Cassazione - il legislatore del 2010, con l’art. 32 co. 3 lett. b), ha fatto riferimento esclusivo ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e non anche a quelli di agenzia e di rappresentanza commerciale. Anzi, dove ha voluto ampliare l’ambito applicativo dell’istituto della decadenza, lo ha fatto esplicitamente prevedendo l’inciso “anche nelle modalità a progetto”, in modo da ricomprendere tale tipologia di contratti non espressamente menzionati nell’art. 409 n. 3 c.p.c. Da qui il corollario per il quale il richiamo all’art. 409 n. 3 cpc, da parte dell’art. 32 citato, sarebbe da riferire unicamente ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e non a tutte le fattispecie contrattuali ivi previste.
Sempre sotto il profilo letterale, la Corte, escludendo un uso generico dei termini adottati che riguardano soggetti giuridici connotati da poteri e facoltà specifiche e differenti e che fanno riferimento a diverse tipologie contrattuali, ha evidenziato il riferimento al termine “committente” che esulerebbe tecnicamente sia dal rapporto di agenzia sia dal rapporto di rappresentanza di commercio, dove invece si ha la figura del “preponente”.
Sotto l’aspetto logico-sistematico, poi, la Suprema Corte ha enfatizzato il fatto che il rapporto di agenzia, pur essendo compreso nel genus della parasubordinazione e assoggettato al rito previsto per le controversie in materia di lavoro, è disciplinato da una serie di fonti normative (Codice civile, accordi economici, legge professionale) che lo caratterizzano in modo singolare rispetto ai rapporti di collaborazione, coordinata e continuativa.
È stato dato peso anche alla circostanza secondo la quale l’art. 1751 c.c. già prevede una peculiare ipotesi di decadenza, che regolamenta la domanda, da parte dell’agente, dell’indennità di cessazione del rapporto. Pur dovendo ammettere che si tratta di una decadenza di tipo sostanziale rispetto a quella di natura processuale prevista dall’art. 32 cit., secondo la Corte, l’eventuale coesistenza di tali ipotesi creerebbe una interferenza tra le due norme che potrebbe incidere sulla esigenza del simultaneus processum e sulla necessità di un accertamento giudiziale unitario in ordine alla verifica sia della arbitrarietà del recesso che della debenza delle indennità negoziali connesse alla cessazione del rapporto le quali potrebbero essere non dovute in caso di interruzione per giusta causa del rapporto.
La decadenza dall’impugnativa stragiudiziale, prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), non si applica ove non si rinvenga un atto che neghi la titolarità del rapporto.
Questo il principio affermato dall’ordinanza resa dalla Cassazione in data 21 novembre 2022, n. 34181.
Giova rammentare che la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, prevede che: "Le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, art. 6, come modificato dal comma 1, del presente articolo, si applicano anche: … d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 27, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto".
L’ordinanza in commento ha escluso che il termine di decadenza possa trovare applicazione alla richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto, ove manchi un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso. E ciò sulla base di molteplici ragioni.
In primo luogo, venendo in rilievo una limitazione temporale per l'esercizio dell'azione giudiziaria di notevole incidenza sui diritti del lavoratore, alla norma deve essere attribuito carattere di eccezionalità, imponendosene una interpretazione particolarmente rigorosa.
Nel senso della impossibilità di una interpretazione estensiva dall’art. 32, lett. d) si è espressa, tra le tante, Cass. civ. Sez. lavoro, 7 novembre 2019, n. 28750, che ha escluso l’applicabilità dei termini di decadenza, previsto dall’art. 32, n. 4, lett. c) e d), L. 183/10, all’ipotesi del lavoratore che non impugna la cessione del contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento ex art. 2112 c.c., ma, all'inverso, la rivendica. E ciò perché, il legislatore utilizzando la locuzione "in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dal D.Lgs. 20 settembre 2003, n. 276, art. 27....", ha inteso “escludere le fattispecie riconducibili, in qualche modo, a quelle già regolate dalle diverse lettere della norma in questione”. Pertanto, se “il fenomeno della cessione del contratto di lavoro, avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c., è stata già disciplinata dal legislatore (lett. c), nella misura in cui risulta essere stata precisata e limitata da questa Corte di legittimità, non può poi una fattispecie relativa allo stesso fenomeno, ma posta in termini differenti e già esclusa dalla ipotesi tipizzata, considerarsi disciplinata dalla norma di chiusura di natura eccezionale” (nello stesso senso, Cass., 4 aprile 2019, n. 9469).
Sotto altro profilo, l’introduzione di “nuovi termini decadenziali per l’esercizio d’un diritto appartiene alla discrezionalità del legislatore” e non potrebbe determinare, “nel bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti, il totale sacrificio o la compromissione eccessiva di uno di essi, dovendosi invece tenere conto della proporzionalità dei messi rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare e delle finalità che si vogliono perseguire, considerate le circostanze e le limitazioni concretamente sussistenti”. Su queste premesse, a giudizio del Supremo Collegio, ammettere “il decorso della decadenza anche in difetto d'una formale comunicazione di cessazione di tale utilizzo renderebbe eccessivamente aleatorio l'esercizio del diritto d'azione del lavoratore, stante l'intrinseca difficoltà di identificarne con esattezza il dies a quo”.
Inoltre, dalla applicazione del termine di decadenza, anche a fattispecie in cui manchi un provvedimento datoriale che neghi la sussistenza del rapporto di lavoro, deriverebbe un’aporia rispetto al combinato disposto degli artt. 6 L. n. 604/1966 e 32 L. n. 183/2010 e alla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione.
In questo senso, è fermo l’orientamento che esclude l’applicabilità del termine di decadenza dall'impungativa del recesso datoriale, previsto dall’art. 6 L. 604/1966, in caso di licenziamento orale (Cass., 11 gennaio 2019, n. 523).
Con riguardo poi al contratto di collaborazione a progetto - risoltosi per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto, ovvero cessato per la sua naturale scadenza - presso la Corte di Cassazione si è andato consolidando l’orientamento che esclude l’estensibilità del termine decadenziale, riferendosi il regime decadenziale di cui all’art. 32, co. 3, lett. b), L. 183/2010 al caso di recesso del committente e mancando, in ogni caso, “un atto che il lavoratore abbia interesse a contestare o confutare” (Cass., 8 luglio 2020, n.14131); in tal caso, l’azione di accertamento della subordinazione e del diritto alla riammissione in servizio può essere esercitata nell’ordinario termine prescrizionale.
L’ordinanza in esame si inserisce, dunque, nel solco della più recente giurisprudenza di legittimità che, proprio con riferimento alla richiesta di accertamento dell’illiceità dell’appalto (o della interposizione fittizia) ha escluso l’applicabilità della decadenza di cui all’art. 32, co. 3, lett. d), L. 183/2010, sul presupposto che “sia nei casi di richiesta di costituzione (ove è chiara la volontà dell'istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione) sia nei casi di richiesta di accertamento (ove l'azione dichiarativa richiede un accertamento "ora per allora") del rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, occorre pur sempre un atto o un provvedimento datoriale che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), in un'ottica di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti” (in questi termini, di recente, Cass. n. 40652 del 17 dicembre 2021, commentata sul nostro sito: “Decadenza dall’accertamento del rapporto di lavoro con datore diverso da quello formale”).
Nell’ordinanza in commento, la Corte esclude che il dies a quo del termine di decadenza possa coincidere “nell'esatta data di scadenza dell'appalto medesimo con l'impresa appaltatrice, vuoi perché una precisa data di scadenza ben può mancare, vuoi perché di essa il lavoratore - vale a dire il soggetto onerato dell'impugnativa - normalmente non è a conoscenza”.
Ancora di recente, Cass., 28 ottobre 2021, n. 30490 ha ritenuto non applicabile “l'art. 39, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015 - che prevede l'applicazione del termine di decadenza di 60 giorni e la sua decorrenza "dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l'utilizzatore" - … essendo riferito alla sola somministrazione di lavoro e non anche all'appalto illecito, sicchè in virtù del carattere di stretta interpretazione delle norme sulla decadenza, non è suscettibile di estensione analogica
Né rileverebbe, ai fini del decorso del termine decadenziale, la data “dell'eventuale licenziamento intimato dall'interposto nel rapporto di lavoro: tale licenziamento è giuridicamente inesistente perché proviene da soggetto diverso da quello che si assume essere il reale datore di lavoro”.
Sulla base delle considerazioni e dei principi sopra passati in rassegna, il Collegio conclude che non possa estendersi “analogicamente ad un "fatto" (la cessazione dell'attività del lavoratore presso il committente) una norma (l'art. 32 cit.) calibrata in relazione ad "atti" scritti e recettizi o ad un diverso e tipizzato fatto (scadenza del contratto a tempo determinato)”.