La mancanza di effettive conseguenze pregiudizievoli, in danno del datore o di terzi, ovvero l'assenza di concreti vantaggi, a favore del lavoratore o di terzi, non valgono, di per sé, ad escludere l'inadempimento e, quindi, la rilevanza disciplinare del fatto.

Questo, in sintesi, il principio affermato dalla Cassazione, con ordinanza del 29 agosto 2024, n. 23318, con riguardo al licenziamento intimato nei confronti di un direttore di banca che – secondo quanto si legge in motivazione - aveva, tra l’altro, attivato una carta di credito all’insaputa della cliente; effettuato accrediti fittizi sui conti di alcuni clienti, poi annullando le operazioni; addebitando somme sul conto di un ignaro cliente per un importo corrispondete agli accrediti in favore di altri clienti.

Con specifico riguardo a tali condotte, i Giudici del merito avevano annullato il licenziamento, e disposto la tutela reintegratoria di cui al comma 4 dell’art. 18 L. 300 del 1970, sul presupposto della insussistenza dei fatti contestati nella duplice accezione di fatto insussistente (con riguardo a condotte non provate in giudizio) ovvero di fatto sussistente, ma privo di illiceità (per quel che concerne le condotte riassunte nel paragrafo precedente). In particolare, la Corte aveva ritenuto i comportamenti di cui sopra privi del carattere dell’offensività e di rilievo disciplinare, stante l’assenza di un danno patrimoniale per la banca, o per i clienti.

L’ordinanza in commento - rigettati i motivi di ricorso tesi a proporre una diversa ricostruzione dei fatti, con riguardo ai capi della sentenza di merito che avevano ritenuto non provate una parte delle condotte addebitate al lavoratore – ha proceduto all’esame dei motivi attinenti alla sussistenza di una giusta causa di recesso, e alla tutela eventualmente spettante al lavoratore, cogliendo l’occasione per riproporre principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità, con particolare riferimento al rapporto di lavoro bancario.

La Corte muove dalla delimitazione del procedimento valutativo della legittimità dei licenziamenti, anche ai fini della individuazione della tutela eventualmente applicabile nel regime instaurato con la Legge n. 92 del 2012 (Legge Fornero), ribadendo che il giudicante deve operare due valutazioni diverse – l'una riguardante la esistenza della giusta causa e l'altra la tutela applicabile – “che devono essere svolte autonomamente” (così, tra le più recenti, Cass. n. 13774 del 2022; Cass. n. 16973 del 2022; Cass. n. 26510 del 2023).

Quanto alla nozione di giusta causa la Corte richiama il consolidato insegnamento, secondo cui “il licenziamento può essere legittimamente intimato allorquando la condotta del lavoratore rivesta il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, di quello della fiducia” (tra le più recenti, v. Cass. n. 3120 del 2021), e quindi “a far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (così, Cass. n. 36427 del 2023).

La valutazione del giudice – si legge nell’ordinanza - deve essere condotta “con riferimento non già al fatto astrattamente considerato, bensì agli aspetti concreti di esso, di modo che risulti come la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata non solo nel suo contenuto oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui essa è stata posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed all'intensità dell'elemento intenzionale dell'agente, risulti idonea a ledere, in modo tanto grave da farla venire meno, la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre in chi collabora nell'impresa e tale, quindi, da esigere sanzioni non minori di quella massima, definitivamente espulsiva; in particolare, detto accertamento deve essere svolto tenendo conto della qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, della posizione che in esso abbia avuto il prestatore d'opera e, quindi, della qualità e del grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava” (tra le diverse citate in sentenza, v. Cass. n. 3115 del 2021).

L’ordinanza in commento, applicando tali principi, ha cassato la sentenza di merito per avere omesso di valutare se le condotte contestate integrassero o meno degli inadempimenti rilevanti ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2119 c.c. o all’art. 3 L. n. 604 del 1966, ragionando esclusivamente sulle loro conseguenze (invece disciplinate dall’art. 18, L. n. 300 del 1970), escludendone apoditticamente ogni attitudine.

In particolare, la Corte ribadisce il principio secondo cui “è irrilevante, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, l'assenza o la speciale tenuità del danno subito dal datore di lavoro, elementi da soli affatto sufficienti ad escludere la lesione del vincolo fiduciario, perché ciò che rileva è la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti”.Parimenti, “il mancato conseguimento di un utile economico da parte del lavoratore non esclude che la sua condotta, per la sua oggettiva gravità, sia tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro, giacché può assumere rilevanza disciplinare anche una condotta che sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, anche potenziale e non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali” (cfr. Cass. n. 15654 del 2012; Cass. n. 9802 del 2015)

Tali principi sono stati costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità con particolare riguardo alla valutazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà dei dipendenti bancari, da operarsi secondo criteri più rigorosi. In questo senso, rileva la Corte, “il comportamento scorretto del dipendente di una banca, a prescindere dal verificarsi di un effettivo danno di natura patrimoniale, (può) ledere l'affidamento che non solo il datore di lavoro ma anche il pubblico devono riporre nella lealtà e correttezza del personale degli istituti di credito” (in questi termini, Cass. n. 9576 del 2001).

Deve peraltro precisarsi che la Corte d’appello, nella fattispecie, aveva valutato l’asserita carenza di offensività, in ragione dell’assenza di pregiudizio per la banca e per la clientela, prima ancora che nella prospettiva del difetto di proporzionalità, al fine di escludere radicalmente il rilievo disciplinare della condotta del lavoratore.

Ormai da quasi un decennio (v. Cass. 20540 e 20545 del 2015), nell’esegesi dell’art. 18 Stat. Lav, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, la Cassazione ha chiarito che “l’insussistenza del fatto … comprende anche l’ipotesi in cui il fatto sussista ma sia privo di illiceità, poiché la completa irrilevanza giuridica del fatto contestato equivale alla sua insussistenza materiale ed è, pertanto, suscettibile di dare luogo alla tutela reintegratoria” (da ultimo, Cass. n. 3362 del 2023).

L’ordinanza in commento delimita la portata di tale principio, precisando, quanto a “l'assoluta sovrapponibilità dei casi di condotta materialmente inesistente a quelli di condotta che non costituisca inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero che non sia imputabile al lavoratore stesso” che di assoluta sovrapponibilità o di completa irrilevanza giuridica del fatto non è dato discorrere “laddove inadempimento vi sia e si possa discutere solo della sua eventuale idoneità a giustificare, in termini di gravità, la risoluzione del rapporto di lavoro; altrimenti ragionando in ogni caso di difetto di proporzionalità tra addebito e sanzione del licenziamento dovrebbe ritenersi applicabile la tutela reintegratoria”.

Applicando questi principi, la Corte ha concluso che non possa considerarsi “radicalmente priva di rilievo disciplinare la condotta del direttore di banca che, secondo quanto concordemente accertato dai giudici di prime cure, abbia: attivato una carta di credito all' insaputa della cliente e allo scopo di raggiungere obiettivi commerciali, domiciliando la carta presso la filiale e conservandola ivi col relativo PIN; effettuato accrediti fittizi sui conti di alcuni clienti, annullando poi le operazioni; addebitato somme sul conto di un ignaro cliente per un importo corrispondente agli accrediti operati in favore di altri clienti a titolo di rimborso spese varie”.

Il caso

Viene accertato in giudizio, per il tramite di alcune deposizioni testimoniali, che la condotta reiteratamente assunta da un dipendente si è tradotta in una “mancanza di rispetto...nei confronti delle lavoratrici vittime delle sue attenzioni ripetute e sgradite”, animata da “un profondo disinteresse per il turbamento e disagio provocato a queste ultime dai continui inopportuni approcci e inviti”.

In adempimento dell’obbligo di sicurezza, prima di procedere alla contestazione disciplinare ex art. 7 L. n. 300/1970 nei confronti del dipendente in questione, il datore di lavoro lo ha diffidato formalmente ad adempiere gli obblighi accessori del rapporto di lavoro, primo fra tutti quello relativo alla necessità che le condotte di ognuno siano improntate al decoro, nonché quello in base le relazioni tra colleghi devono ispirarsi a correttezza. Il lavoratore, disinteressandosi della diffida, ha continuato a porre in essere comportamenti della medesima natura di quelli oggetto di diffida: è stato quindi licenziato per giusta causa.

L’atto di recesso datoriale viene però impugnato per violazione del principio del ne bis in idem, posto che, secondo il lavoratore, il potere disciplinare si era già consumato per effetto della diffida e, ai fini della contestazione disciplinare, dovrebbero necessariamente valere solo i fatti successivi alla medesima.

La soluzione prospettata dalla Corte di cassazione con la pronuncia n. 31790/2023

Premesso che il lavoratore è risultato essere soccombente in giudizio nella fase a cognizione sommaria, in quella d’opposizione, nonché nel giudizio di reclamo, la Corte ha specificato che la diffida ad adempiere è un’espressione del potere direttivo del datore di lavoro e non può dunque fondatamente ricondursi alla sequela di atti che costituiscono il procedimento disciplinare. E’ il successivo inadempimento della diffida, realizzato con comportamenti ulteriori, e della medesima natura di quelli già adottati in precedenza, che è stato oggetto della contestazione disciplinare che ha poi condotto al licenziamento del lavoratore. Ciò non toglie che la contestazione disciplinare possa in ogni caso riguardare anche quei fatti già menzionati nella diffida, appunto perché, con essa, il datore di lavoro, nell’esercizio del potere direttivo che gli è proprio, non ne ha voluto contestare la natura di addebiti disciplinari, ma li ha richiamati al solo scopo strumentale, ontologicamente proprio della diffida, di invitare il lavoratore all’adempimento futuro.

Il caso

Un lavoratore, con qualifica di operaio saldatore e continuativamente impiegato in azienda dal 1988, viene licenziato nel 2017 per giusta causa, allorquando il datore di lavoro viene a conoscenza dell’esistenza di una denuncia sporta dalla sua convivente per maltrattamenti, ingiurie e lesioni personali, e della conseguente misura degli arresti domiciliari cui il dipendente era stato inizialmente sottoposto dal G.I.P. (misura poi convertita nell’obbligo di firma).

Il licenziamento è stato ritenuto legittimo dal Tribunale di Cassino (tanto nella fase sommaria, quanto in quella di opposizione), mentre la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, lo ha ritenuto illegittimo e ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del quarto comma dell’art. 18 L n. 300/1970.

L’anzidetta pronuncia è stata impugnata con ricorso in Cassazione dal datore di lavoro; ha resistito con controricorso il lavoratore.

La c.d. giusta causa esterna

Con l’espressione giusta causa “esterna” si è soliti intendere una giusta causa di licenziamento che è integrata da fatti commessi dal lavoratore al di fuori del rapporto lavorativo (sia dal punto di vista temporale, che spaziale) che integrano una fattispecie di reato.

E’ principio consolidato quello secondo cui, affinché fatti costituenti reato possano avere rilevanza disciplinare, è necessario che siano tali da ledere gli interessi morali e/o materiali del datore di lavoro, oppure che siano tali da far venir meno la fiducia datoriale nell’esattezza dei futuri adempimenti della prestazione lavorativa. Infatti, alla luce della “non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare”, ha osservato la Corte di Appello di Roma (richiamando Cass n. 3076/2020) nel giudizio di secondo grado, affinché fatti che integrano un reato possano valere in termini di giusta causa di licenziamento, è necessario valutare il “disvalore oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda”, ossia verificare se gli illeciti penali in questione, “tenuto conto delle mansioni in concreto espletate dal lavoratore e dell’ambito lavorativo aziendali”, siano tali da compromettere l’elemento fiduciario.

La decisione fornita da Cass. n. 22077/2023

La Corte di Cassazione ribadisce la correttezza di tali enunciazioni di diritto, soggiungendo che la giusta causa di licenziamento può sussistere “anche in presenza di condotte extralavorative, a condizione però che abbiano un riflesso anche solo potenziale, ma comunque oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, a causa della compromissione dell’aspettativa datoriale circa un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa”.

Da un punto di vista meramente fattuale, al fine di giustificare l’atto di recesso, la società aveva addotto il timore che il lavoratore, in ragione della sua indole violenta, potesse adottare comportamenti analoghi all’interno del contesto aziendale, soprattutto nei confronti di persone di sesso femminile.

Cionondimeno, afferma la Cassazione, il licenziamento nel caso di specie deve ritenersi illegittimo perché, tenuto conto delle mansioni meramente esecutive del lavoratore, dell’assenza di alcun precedente disciplinare relativo a condotte violente che sia rinvenibile nel pur lungo periodo che va dall’assunzione al licenziamento (circa trent’anni), le condotte in questione, per quanto deprecabili, non avevano avuto, invero, alcuna incidenza concreta sull’ambiente lavorativo, né alcuna eco mediatica.

La giusta causa di licenziamento, conseguentemente, viene ritenuta insussistente, ed anzi, ancor prima, il fatto contestato al lavoratore viene ritenuto privo di rilevanza disciplinare. Per tale motivo viene ritenuto applicabile il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970: ciò perché “il fatto materiale sussiste, ma, sul piano lavorativo, ossia della sua incidenza sul rapporto lavorativo, non può dirsi ‘illecito’, bensì ‘neutro’ e quindi non rilevante”.

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