La sentenza della Corte di Cassazione n. 15140 del 30 maggio 2023 merita di essere commentata per un duplice ordine di motivi. Da un lato, con essa la S.C. torna a ridefinire i confini dell’art. 348 ter c.p.c. in relazione all’art. 360, 1 co., n. 5 c.p.c., in termini che potranno certamente risultare utili anche ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione della disposizione dell’art. 360, co. 4° c.p.c., che ha sostituito, com’è noto, l’art. 348 ter c.p.c., riproponendone il contenuto nell’assetto normativo introdotto dal D. Lgs. 149/2022; dall’altro lato, offre lo spunto per ribadire il principio secondo cui la tipizzazione dei comportamenti contenuta nella contrattazione collettiva e la scala valoriale formulata per ciascuno di essi dalle parti sociali, se non è vincolante per il giudice, è però, pur sempre, uno dei parametri cui occorre far riferimento per riempire di contenuto la clausola generale sulla giusta causa di licenziamento di cui all’art. 2119 cc.

Il caso preso in esame dalla Corte ha ad oggetto il licenziamento per giusta causa di un lavoratore assunto a termine a seguito di recidiva specifica nel medesimo comportamento già posto a fondamento di tre precedenti sanzioni disciplinari nei sei mesi precedenti (l’addebito contestato era consistito nel non avere il lavoratore, addetto all’eviscerazione presso il reparto macello tacchini, estratto correttamente il pacco intestinale ai tacchini).

Dichiarati infondati i primi due motivi di ricorso, la S.C. ha ritenuto inammissibile il terzo[1], essendosi realizzata una “ipotesi di c.d. doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348–ter c.p.c. e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.”. Al riguardo, la S.C. è tornata a specificare che nel ricorso per cassazione, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, co. 1 n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente “deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse” (Cass. n. 26774/2016; conf. Cass. 20994/2019; v. anche Cass. 8320/2022); e ha ribadito che ricorre l’ipotesi di “doppia conforme” ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità del motivo ex art. 360, 1 co., n. 5, c.p.c. “non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice” (Cass. n. 7724/2022, n. 29715/2018; cfr. anche Cass. n. 37382/2022).

Interessante anche la motivazione sottesa al rigetto del quarto motivo di ricorso[2]. Sul punto, la S.C., dopo aver ribadito che “rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del CCNL, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo”, ha altresì precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione al fine di sottoporre a censura il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice del merito sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale, costituito dalle previsioni del codice disciplinare del CCNL. Chiarisce, infatti, la S.C. che, in questa materia, non è sufficiente verificare la riconducibilità dei fatti posti a base del licenziamento con la fattispecie astratta prevista dalla contrattazione collettiva, ma il giudice del merito deve operare la valutazione della sussistenza della gravità e proporzionalità fra il fatto contestato e la sanzione irrogata dal datore di lavoro, dovendo altresì tenere conto se tali fatti siano suscettibili di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali “con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza” (cfr. Cass. n. 33811/2021, n. 13411/2020, n. 18195/2019).

Sulla base di tali principi, la S.C. ha quindi rigettato il motivo di ricorso avanzato dal lavoratore-ricorrente, avendo ritenuto che la Corte distrettuale avesse, in effetti, operato il giudizio di valutazione di gravità in concreto e di proporzionalità con riferimento al contratto collettivo e alla circostanza della recidiva, e ritenendo quindi giustificata la sanzione espulsiva del licenziamento.


[1] Con il quale il ricorrente aveva dedotto (art. 360, n. 5, c.p.c.) omesso esame della condotta delle parti alla luce delle prescrizioni mediche e mancata ammissione di CTU.

[2] Con il quale il ricorrente aveva dedotto (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità tra fatto contestato e provvedimento di licenziamento, con riguardo alle circostanze concrete e alle modalità soggettive della condotta del lavoratore

Il caso da cui origina la pronuncia

Una lavoratrice, che da meno di un anno è diventata madre, si assenta ingiustificatamente dal lavoro per un periodo superiore ai cinque giorni. Il contratto collettivo che si applica al rapporto di lavoro prevede che l’assenza ingiustificata del dipendente per un periodo superiore ai cinque giorni integri un’ipotesi di giusta causa di licenziamento, motivo per il quale il datore di lavoro intima il licenziamento della lavoratrice ai sensi dell’art. 2119 c.c.

La soluzione del Tribunale di Brescia.

Il Giudice di merito, innanzi tutto, muove dalla ricognizione della disciplina legale che regolamenta la fattispecie del licenziamento della lavoratrice madre, rilevando che l’art. 54 del D. Lgs n. 151/2001 sancisce un vero e proprio divieto di licenziamento della lavoratrice-madre, dal periodo di inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di vita del bambino. Tale divieto, tuttavia, non è assoluto, ma appunto ammette delle eccezioni tipizzate dal legislatore: tra queste, per quel che qui rileva, il caso della “colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro”.

Ciò chiarito, il Tribunale di Brescia ha affermato che, in presenza di tale esplicito divieto di licenziamento – sancito dalla legge in considerazione della peculiare condizione, e funzione sociale, della donna-lavoratrice che ha partorito da meno di un anno – l’ipotesi derogatoria della colpa grave che integra una giusta causa di licenziamento costituisce una “fattispecie autonoma”, distinta dalle “ordinarie” causali di licenziamento disciplinare, quali la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo. Richiamando a sostegno della propria decisione alcune sentenze della Suprema Corte nell’ambito delle quali si è chiarito che la “colpa grave” che giustifica il licenziamento della lavoratrice-madre costituisce una fattispecie di giusta causa connotata da maggior disvalore e gravità (ed in particolare: Cass. civ. Sez. lav. n. 19912/2011; Cass. civ. Sez. lav. n. 2004/2017), il Tribunale giunge alla conclusione che il datore di lavoro si è limitato a richiamare la previsione del contratto collettivo che qualifica in termini di giusta causa una data condotta del lavoratore, senza appunto dimostrare che “la condotta della prestatrice possa aver integrato gli estremi di una colpa grave, né tanto meno” illustrare “le ragioni secondo cui sarebbe stato inoperante il divieto legale di licenziamento”. Il licenziamento è conseguentemente nullo ai sensi dell’art. 18, co. 1, L. n. 300/1970, appunto perché il datore di lavoro, sul quale grava il relativo onere probatorio, non ha dimostrato la ricorrenza dei presupposti causali, quali appunto la colpa grave “costituente gusta causa per la risoluzione del rapporto”, la cui sussistenza è invece necessaria affinché sia inoperante l’esplicito divieto di licenziamento della lavoratrice madre sancito dall’art. 54 D.Lgs. 151/2001.

La disciplina normativa

E’ noto che la L. n. 92/2012 ha modificato l’art. 18 della L. n. 300/1970 introducendo quattro distinti regimi di tutela, ciascuno destinato a trovare applicazione in diverse ipotesi di illegittimità dell’atto di recesso datoriale. Più in particolare, e soffermandosi su quelli che maggiormente rilevano ai fini della riflessione sull’ordinanza qui commentata, nel caso di un licenziamento disciplinare per cui sia stata accertata la non ricorrenza della causale di licenziamento addotta dal datore di lavoro a fondamento del medesimo, è previsto che il giudice dichiari risolto il rapporto di lavoro e condanni il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria ricompresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ove tuttavia, oltre alla non ricorrenza della causale di recesso perché la gravità dell’addebito non è tale da integrare la nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, il giudice accerti l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità di esso alle “condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, allora dovrà essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro con un risarcimento del danno che, nell’ammontare massimo, non potrà essere superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità.

L’ordinanza qui annotata (che rimette la causa alla sezione semplice avendo evidentemente ritenuto insussistenti le ipotesi contemplate dall’art. 375, 1° co. n. 1 e 5 c.p.c. per decidere in camera di consiglio)ripercorre analiticamente gli orientamenti espressi dalla Suprema Corte, fin dal 2015, con riferimento all’ipotesi in cui la reintegrazione sia stata disposta dal giudice perché il fatto contestato al lavoratore, la cui gravità non è tale da poter essere qualificato in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, rientra tra le condotte punibili dal contratto collettivo con una sanzione di tipo conservativo.

Più nel dettaglio, le pronunce su cui la Suprema Corte si sofferma sono quelle relative alle ipotesi in cui la fattispecie disciplinare contestata dal lavoratore è sì punita dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, ma è descritta ed individuata facendo ricorso a “nozioni elastiche” o norme di chiusura, quali sono, solo per fare qualche esempio, quelle che descrivono gli addebiti come l’“insubordinazione” o la “negligente esecuzione del rapporto”. Si tratta di addebiti disciplinari che sono ex se espressione di concetti indeterminati, o comunque dai contorni non esattamente definiti e che dunque pongono all’interprete il problema di stabilire quando la fattispecie concreta contestata al lavoratore possa dirsi effettivamente integrata.

In tali casi, afferma la Corte di Cassazione, ad un iniziale orientamento che ha ritenuto che in presenza di fattispecie disciplinari descritte mediante “nozioni elastiche” sia compito del giudice di merito compiere un’attività di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, ne è seguito un altro, di segno opposto, che, a partire da Cass. n. 12365/2019, ha invece ritenuto che “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamnete contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con una sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 novellato. Coerentemente non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari punibili con una sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare”. Secondo tale orientamento, il ricorso da parte del giudice di merito ad un’interpretazione della clausola elastica che ne allarghi i contorni oltre i casi espressamente contemplati, “sarebbe contraria alla ratio della nuova disciplina in cui la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure della chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalla parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione”. Al fine di stabilire se il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo soggettivo debba esser sanzionato con il rimedio reintegratorio o con quello indennitario, sarebbe pertanto preclusa al giudice una valutazione comparativa tra il disvalore disciplinare dell’addebito contestato con quello di altre fattispecie del contratto collettivo, le quali tuttavia, a differenza del primo, sono espressamente tipizzate dal CCNL come addebiti da sanzionare con misure disciplinari di tipo conservativo. Ciò perché non sarebbe consentito al giudice avvalersi del principio di proporzionalità per determinare, in sostituzione delle parti collettive, un assetto pattizio che sia espressione di maggiore ragionevolezza, in quanto “il rischio di una disparità di trattamento in tema di tutela applicabile, connessa alla tipizzazione o meno operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare, costituisce…espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione e il rispetto dell’autonomia collettiva in materia” (in questi termini Cass. n. 13533/2019).

In sintesi, l’orientamento giurisprudenziale che fino alla pronuncia in commento si stava consolidando era quello in base al quale, ai fini dell’applicabilità del rimedio reintegratorio, era necessario che il fatto contestato fosse stato preventivamente ed espressamente tipizzato dal contratto collettivo applicato al rapporto, a tal punto che per i contratti collettivi che contengono clausole generali e dunque privi di tipizzazioni si è giunti ad escludere in radice l’operatività del rimedio reintegratorio di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970.

Nel premettere innanzi tutto che, a parere di chi scrive, nell’ambito della pronuncia che qui si commenta la Suprema Corte sembrerebbe aver utilizzato il termine “clausole generali” per far in realtà riferimento alle “norme o clausole elastiche”[1], il Collegio muove dalla necessità di “chiarire se in presenza di fattispecie punite con misure conservative e descritte attraverso clausole generali, l’attività compiuta dal giudice abbia ad oggetto l’interpretazione della fonte negoziale e la sussumibilità del fatto contestato nella disposizione contrattuale oppure implichi o si esaurisca in una valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito mosso”.

Ed a questo riguardo la Corte rileva che l’orientamento che richiede che il rimedio reintegratorio possa trovare applicazione solo nei casi in cui l’addebito contestato sia stato previamente tipizzato presenti profili di irragionevolezza, dato che “le fattispecie punitive contemplate dai contratti collettivi non sono definite secondo una rigorosa applicazione del principio di tassatività, ma hanno in prevalenza carattere indeterminato, in relazione alla indeterminatezza degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà del dipendente, alla cui violazione è connesso l’esercizio del potere disciplinare”. In linea con quanto sopra, viene rilevato dalla Corte che nell’ambito del potere disciplinare del datore di lavoro il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso in senso rigoroso, analogamente a quanto prevede l’art. 25 della Costituzione per gli illeciti di carattere penale. Poiché per la contrattazione collettiva è concretamente impossibile tipizzare tutte le condotte disciplinari di cui un lavoratore si potrebbe rendere responsabile, “non appare rispondente ad un criterio di ragionevolezza attribuire alla tipizzazione, ad opera dei contratti collettivi, delle condotte punibili con sanzione conservativa il ruolo di discrimine per la selezione, in ipotesi di illegittimità del licenziamento, tra la tutela reintegratoria e quella indennitaria”.

La tipizzazione degli illeciti disciplinari di cui frequentemente si rinviene traccia nei contratti collettivi, afferma la Corte, non è rigorosamente correlata alla diversa gravità degli illeciti ivi menzionati, non solo perché – frequentemente – essa non è stata concepita dalle parti sociali in vista del ruolo di discrimine tra tutela reintegratoria ed indennitaria che, a partire dal 2012, essa ha incominciato a svolgere, ma anche perché “non è realizzata secondo un criterio idoneo a dare ragione del fatto che solo alcuni illeciti disciplinari, e non altri, meritino la tutela reintegratoria”, con il corollario, definito appunto “irragionevole”, “di far ricadere sui lavoratori le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva”. Ancorare l’operatività del rimedio reintegratorio alla tipizzazione dello specifico illecito disciplinare contestato al lavoratore, afferma la Corte, realizza un’irrazionale disparità di trattamento tra casi di licenziamento fondati su illeciti disciplinari non gravi, tipizzati dal contratto collettivo, e licenziamenti fondati su altri illeciti disciplinari, di pari o minore gravità rispetto ai primi, che però, non essendo tipizzati dal CCNL applicato al rapporto, danno luogo esclusivamente all’applicazione del rimedio indennitario.

Verso una rimeditazione del contenuto precettivo dell’art. 18, co. 4° e 5°?

Sono proprio le considerazioni qui sintetizzate che inducono la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla vicenda nell’ambito del procedimento in camera di consiglio previsto dall’art. 380 – bis c.p.c. (e, dunque, all’interno della sezione VI – Lavoro), a ritenere insussistenti i presupposti per la decisione con quella modalità ed a rimettere la causa alla sezione Lavoro ordinaria.

A questo punto, occorrerà attendere la pronuncia di quest’ultima, per verificare se le perplessità, sollevate dall’ordinanza che qui si è segnalata circa l’orientamento che si stava consolidando nella giurisprudenza di legittimità, si trasformeranno in un overruling del medesimo.


[1] Esempi di c.d. clausole generali sono la correttezza e la buona fede nell’esecuzione del contratto: esse  contengono enunciazioni di criteri di valutazione “del comportamento delle parti” che vanno integrate in sede di interpretazione valutativa, conformandosi sia ai principi dell’ordinamento sia ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che unitamente a detti principi costituiscono “il diritto vivente”.

Esempi di norme o clausole elastiche sono la giusta causa ed il giustificato motivo di risoluzione del contratto, ovvero la proporzionalità della sanzione), che sono propriamente, invece, “norme complete (…) che contengono formulazioni idonee ad identificare non una precisa fattispecie ma una ipotesi-tipo, un modulo generico da applicare alla singola fattispecie concreta in via interpretativa”; così.  Adalberto Perulli, Il controllo giudiziale dei poteri dell’imprenditore tra evoluzione legislativa e diritto vivente, RIDL, 2015, I, pag. 83 ss.

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram