Il giustificato motivo oggettivo ricorre quando il licenziamento viene intimato per fatti inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (art. 3, l. n. 604/1966). Ai fini della legittimità di tale licenziamento, il datore deve dimostrare l’impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore all’interno dell’azienda.
Si tratta del c.d. obbligo di repêchage.
In una recente ordinanza (n. 1386 del 18 gennaio 2022), la Corte di Cassazione ha fatto il punto proprio sul significato di questo obbligo.
Il Supremo Collegio ha ribadito, in primo luogo, che, ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, è richiesta non solo la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, ma anche l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse. Quest’ultimo elemento, inespresso a livello normativo, secondo la Corte, troverebbe giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro sia nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore (cfr., in questo senso, anche Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882).
L’onere di allegazione e di prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato spetta al datore di lavoro. Pertanto, questi ha l’onere di provare che, al momento del licenziamento, non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti né che vi era la possibilità di un reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori (cfr., tra le tante, Cass. 13 agosto 2008 n. 21579).
Quello che rileva è, in sintesi, l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore a mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, tenuto conto della organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento (Cass. 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 11 giugno 2014, n. 13112; Cass. 24 giugno 2015, n. 13116).
Il contesto da prendere in considerazione, dunque, è quello nel quale si inserisce il licenziamento, atteso che, come detto, “il giustificato motivo oggettivo che rende legittimo l'intimato licenziamento si configura proprio in assenza di collocazioni alternative del prestatore d'opera all'epoca del licenziamento stesso”.
Ne discende che il licenziamento potrà dirsi legittimo solo se l’impossibilità di destinare il lavoratore a mansioni diverse sussiste “nel momento in cui è espressa la volontà di recedere, e non in un momento successivo”.
Nel caso affrontato dalla Corte nell’ordinanza citata, il datore aveva fatto riferimento ad una proposta di reimpiego della lavoratrice, che non aveva poi avuto seguito, formulata dalla società fallita dopo il licenziamento, ed il cui tenore, a detta della Cassazione, “risulta coerente con l’esistenza, perlomeno nel momento in cui fu manifestata, di un reimpiego dell’odierna ricorrente in altre mansioni (con un dato, cioè, che, riflette una situazione la quale, laddove sussistente al momento del licenziamento, di poco anteriore, non avrebbe potuto giustificare quest’ultimo)”.
La conclusione della Suprema Corte è nel senso che, ai fini del rispetto dell’obbligo di repêchage e, dunque, della valutazione del licenziamento, non è sufficiente, l’offerta formulata dal datore dopo il provvedimento.
Quello che conta è la situazione esistente al momento in cui il licenziamento è stato deciso e comunicato. Quanto è avvenuto dopo non giustifica la scelta datoriale.