Il certificato che attesta la presenza in ospedale al fine di giustificare un’assenza dal lavoro non deve contenere indicazioni sulla struttura presso la quale è stata erogata la prestazione sanitaria, il timbro con la specializzazione del medico o informazioni che possano far risalire allo stato di salute.
Il Garante della privacy, come si legge nell’ultima newsletter pubblicata sul sito ufficiale, nel sanzionare un’azienda sanitaria territoriale per aver trattato in maniera illecita i dati sulla salute, ha evidenziato tali principi.
Il Garante ha ricordato, in primo luogo, che per “dato personale” si intende “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile (“interessato”)” e, per “dati relativi alla salute” quelli “attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute” (art. 4, par. 1, nn. 1 e 15, del Regolamento).
In base al Regolamento, i dati personali devono essere “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati («principio di minimizzazione dei dati»)” e “trattati in maniera da garantire un’adeguata sicurezza (…), compresa la protezione, mediante misure tecniche e organizzative adeguate, da trattamenti non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno accidentali («principio di integrità e riservatezza»)” (art. 5, par. 1, lett. c) e f) del Regolamento).
I dati personali, poi, devono essere trattati nel rispetto del principio di protezione dei dati fin dalla progettazione (privacy by design) secondo il quale, “sia al momento di determinare i mezzi del trattamento sia all’atto del trattamento stesso, il titolare del trattamento deve mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate, volte ad attuare in modo efficace i principi di protezione dei dati e a integrare nel trattamento le necessarie garanzie al fine di soddisfare i requisiti del Regolamento e tutelare i diritti degli interessati” (art. 25 del Regolamento).
Inoltre – si legge nel provvedimento -, secondo il principio di responsabilizzazione, il titolare del trattamento deve conformarsi, ed essere in grado di comprovare, il rispetto dei principi e degli adempimenti previsti dal Regolamento (artt. 5, par. 2 e 24 del Regolamento). Il titolare è, pertanto, tenuto ad effettuare una valutazione in ordine alla pertinenza e non eccedenza delle informazioni trattate, al fine di garantire l’effettiva applicazione del principio di minimizzazione.
Il titolare del trattamento è del pari tenuto ad adottare misure tecniche e organizzative idonee a garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio, tenendo conto, in particolare, dei rischi che derivano dalla divulgazione non autorizzata o dall’accesso, in modo accidentale o illegale, a dati personali trasmessi, conservati o comunque trattati.
Con specifico riferimento alla fattispecie esaminata, il Garante ha evidenziato che gli organismi sanitari devono mettere in atto specifiche procedure dirette “a prevenire, nei confronti di estranei, un’esplicita correlazione tra l’interessato e reparti o strutture, indicativa dell’esistenza di un particolare stato di salute”.
Tali cautele – ha concluso il Garante - devono essere osservate anche nella stesura delle certificazioni richieste per fini amministrativi, ad esempio, e appunto, per giustificare un’assenza dal lavoro o l’impossibilità di partecipare ad un concorso.
La Corte di Cassazione, con ordinanza del 1 settembre 2021, n. 23723, ha dichiarato nullo il recesso dal patto di non concorrenza dichiarato dal datore di lavoro (anche) in costanza di rapporto.
La fattispecie trae origine dalla domanda di una lavoratrice diretta ad ottenere il compenso pattuito nell’ambito di un patto di non concorrenza “per i due anni successivi alla cessazione del rapporto”. Sul presupposto che il datore di lavoro aveva dichiarato il recesso sei anni prima della risoluzione del rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha escluso potesse configurarsi alcun pregiudizio per la lavoratrice e dichiarato la legittimità del diritto di recesso, ove esercitato per il periodo antecedente la cessazione del rapporto di lavoro. L’ordinanza in commento ha cassato il provvedimento.
La pronuncia dichiara di voler dar seguito all’insegnamento della sentenza n. 3 del 2018, che aveva dichiarato la nullità, per violazione dell’art. 2125 c.c., della clausola che attribuiva al datore di lavoro il diritto di recesso dal patto di non concorrenza alla data di cessazione del rapporto, o per il periodo successivo, nell’arco temporale di vigenza dell’obbligo di non concorrenza. Nel precedente citato, la Corte aveva ritenuto che l’unilaterale libertà di recesso vanificherebbe le valutazioni sulla base delle quali il lavoratore ha accettato una limitazione alla libertà di lavoro, privandolo – in un momento nel quale si è predisposto per adempiere all’obbligo già vigente - del corrispettivo (il diritto alla erogazione del quale era sorto, nei casi decisi dal Supremo Collegio, solo al momento della cessazione del rapporto).
In epoca ancor più recente, la Cassazione, con ordinanza del 3 giugno 2020, n. 10535 (per un commento alla quale si rimanda al nostro “Il diritto di recesso in favore del datore di lavoro nel patto di non concorrenza ex art. 2125 C.C. (CASS., ORD. 3.6.2020, N. 10535/20)”), si è spinta oltre, ritenendo applicabile il medesimo principio anche alla (diversa) ipotesi in cui “il recesso dal patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro” .
Nel solco di quest’ultimo precedente l’ordinanza in commento, ha ritenuto irrilevante “il fatto che, nella fattispecie, il recesso dal patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro” poichè “i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà”. Rileva la Corte che “detta compressione, … ai sensi dell'art. 2125 c.c., non poteva avvenire senza l'obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finerebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo”.
Sotto un primo profilo, è invero opinabile che “i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto”. In realtà, il vincolo concorrenziale a carico del lavoratore sorge solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
E questo pare anche l’assunto da cui muovono i precedenti, di cui la stessa ordinanza si dichiara tributaria (in particolare, Cass. n. 212 del 2013 e Cass. 3 del 2018), concludendo che il recesso esercitato al momento della cessazione del rapporto (o in epoca successiva) opera su un obbligo di non concorrenza già sorto. Al contrario, il diritto di recesso attribuito al datore in costanza di rapporto non potrebbe spiegare alcun effetto sulle valutazioni di convenienza operate dal lavoratore al momento della sottoscrizione del patto, incidendo su un obbligo non ancora sorto.
Una riflessione forse più approfondita merita poi l’affermazione secondo cui la limitazione della libertà del lavoratore, dalla sottoscrizione del patto al recesso del datore, sarebbe rimasta priva di corrispettivo.
Anche a voler ammettere che la sola sottoscrizione del patto di non concorrenza comprometta la libertà del lavoratore “di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo”, il riferimento alla assenza di corrispettivo, a fronte di tale limitazione, sarebbe pertinente alle sole fattispecie (come in effetti sembrerebbe essere quella decisa dalla Corte) in cui il pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza sia previsto in epoca successiva alla cessazione del rapporto.
Ragionando nei medesimi termini proposti dall’ordinanza in esame, a diverse conclusioni dovrebbe, invece, giungersi nelle ipotesi – largamente diffuse nella prassi - in cui sia previsto il pagamento del corrispettivo in costanza di rapporto. In questo caso, a seguito dello scioglimento del patto in costanza di rapporto, il lavoratore si troverebbe nella – assai vantaggiosa – situazione di acquisire comunque il corrispettivo erogato e di essere ancora titolare di un rapporto di lavoro, senza dover veder limitata la propria libertà di ricollocamento anche in caso di (futura) cessazione del rapporto di lavoro.
È, anzi, dotata di intrinseca ragionevolezza la previsione di un corrispettivo (per il vincolo scaturente dalla sottoscrizione del patto) direttamente proporzionale alla durata del sacrificio derivante al lavoratore alla libertà di progettare il proprio futuro per il periodo successivo alla sottoscrizione del patto.
È auspicabile, dunque, che – anche ove si ritenga che il vincolo contrattuale sorga già con la sottoscrizione del patto – si operi una disamina della concreta regolamentazione pattizia, distinguendo le clausole che attribuiscano al datore di lavoro il diritto di recedere dal patto al momento della cessazione del rapporto, o in epoca successiva (quando, in effetti, il lavoratore si sia già predisposto ad adempiere) da quelle in cui il recesso sia esercitabile in epoca antecedente alla cessazione del rapporto di lavoro e il corrispettivo pagato in costanza di rapporto.
Strada spianata, dunque, per i lavoratori desiderosi di svincolarsi da un patto di non concorrenza per poter cominciare a lavorare con un competitor dell’ex – datore di lavoro, dunque? In realtà no, perché qui, come detto, la pretesa fatta valere dalla lavoratrice era relativa al pagamento del corrispettivo per il patto, pur essendo intervenuto il recesso datoriale dallo stesso; nel caso in cui la prospettazione di nullità della clausola relativa al recesso fosse funzionale ad ottenere l’invalidazione dell’intero patto di non concorrenza, si porrebbe il problema della – niente affatto scontata ed anzi sovente implausibile – essenzialità della clausola relativa al diritto di recesso, la quale soltanto potrebbe condurre alla declaratoria di nullità, ex art. 1419, 1° co. c.c., dell’intero patto di non concorrenza.
Il Tar Lazio, con due decreti n. 4531 e 4532 del 2 settembre 2021 (che si allegano in calce), ha dichiarato la legittimità dei provvedimenti ministeriali che prevedono la sospensione del docente senza green pass, atteso che il diritto a non vaccinarsi non è assoluto e intangibile in presenza di diritti fondamentali di rango superiore come quello alla salute pubblica.
La vicenda processuale origina da due ricorsi proposti da alcuni docenti e da una sigla sindacale (Anief) nei confronti del Ministero dell’Istruzione per l’annullamento:
I provvedimenti impugnati dai docenti ricorrenti costituiscono la mera applicazione delle previsioni di cui all’art. 9 ter D.L. 52/2021, il quale – “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione in presenza del servizio essenziale di istruzione” – pone in capo a “tutto il personale scolastico del sistema nazionale di istruzione e universitario, nonché gli studenti universitari” l’obblogo di possedere ed esibire “la certificazione verde COVID-19”. Il comma 2 della medesima norma individua, nel mancato rispetto delle disposizioni cui sopra, una “assenza ingiustificata e a decorrere dal quinto giorno di assenza il rapporto di lavoro” con sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.
Già sotto tale profilo, dunque, le previsioni ministeriali non possono riteneresi illegittime.
A quanto è dato desumere dalla parte motivata, i ricorrenti individuano nelle previsioni dei provvedimenti impugnati una violazione (o, almeno, limitazione) del diritto alla salute, che troverebbe concretizzazione nel diritto a non vaccinarsi.
Il Tar rileva che tale diritto “non ha valenza assoluta né può essere inteso come intangibile, avuto presente che deve essere razionalmente correlato econtemperato con gli altri fondamentali, essenziali e poziori interessi pubblici quali quello attinente alla salute pubblica a circoscrivere l’estendersi della pandemia e a quello di assicurare il regolare svolgimento dell’essenziale servizio pubblico della scuola in presenza”.
Il Tribunale, dunque, non si ferma al piano formalistico, ma opera un bilanciamento dei diversi interessi involti, concludendo nel senso della prevalenza degli interessi di natura pubblicistica (quali quello alla salute pubblica o all’esercizio del servizio pubblico scolastico) rispetto a quello individuale a non vaccinarsi.
Le argomentazioni proposte dal Tar si inseriscono nel solco tracciato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo (Decisione dell’8 aprile 2021, Caso di Vavřička and Others v. the Czech Republic, commentata sul nostro sito da Maria Santina Panarella, "Corte Europea dei diritti dell’Uomo: i vaccini obbligatori possono essere considerati necessari in una società democratica"), che ha defiito come “Necessary in a democratic society” le misure nazionali, adottate dalla Repubblica Ceca, prevedenti l’obbligatorietà di vaccini.
Peraltro, e come pure rileva il Tar, il diritto a non sottoporsi a vaccino è garantito dalla legge attraverso la possibilità di ottenere il green pass tramite la presentazione di un tampone, molecolare o antigenico, che attesti la negatività al Sars-Cov 2.
Dal momento in cui l’ottenimento del green pass tramite l’esecuzione del tampone, in alternativa al vaccino, è previsto, nell’impianto delineato dal legislatore, ad esclusiva tutela della scelta del docente a non vaccinarsi, il Tribunale ritiene ragionevole che “il costo del tampone venga a gravare sul docente che voglia beneficiare di tale alternativa”.
Calando tali principi sul piano del rapporto di lavoro del personale scolastico, alla violazione dell’obbligo di presentare il green pass per l’esercizio di attività in ambito scolastico, previsto dal art. 9 ter, co. 1, D.L. 52/2021, consegue automaticamente la sospensione del docente senza green pass, dal lavoro e dalla retribuzione, sancita dall’art. 9 ter, co. 2, sopra trascritto.
Tale conclusione, anche a prescindere da una espressa previsione normativa in tal senso, è condivisa da un orientamento giurisprudenziale che si sta anadando consolidando, e che ritiene legittima la sospensione del lavoratore non vaccinato anche ove non sia previsto l’obbligo di vaccinarsi ovvero di presentare il green pass, in caso di attività lavorative a contatto col pubblico.
Così, di recente, Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 28 luglio 2021 (per un commento del provvedimento si richiama il nostro articolo “Legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del lavoratore che non si è sottoposto a vaccino anti Covid 19”) ha dichiarato la legittimità sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del dipendente di un villaggio, che non si era sttoposto al vaccino anti Covid 19, e pertanto ritenuto, dal medico comptetente, inidoneo alle mansioni espletate, a tutela della salute del lavoratore e del pubblico potenzialmente a contatto con il medesimo.
Nello stesso senso, si erano espressi il Tribunale di Verona, ord. 24 maggio 2021 e il Tribunale di Modena, ord. 19 maggio 2021, che hanno rigettato le domande, proposte in via d'urgenza, da operatri sociosanitari operanti presso RSA, collocati in aspettativa non retribuita in ragione del rifiuto di sottoporsi al vaccino anti Covid 19. Ed ancora il Tribunale di Belluno, ord. del 19 marzo 2021, commentata sul nostro sito da Santina Panarella nel contributo “Se l’operatore socio-sanitario si rifiuta di vaccinarsi contro il Covid – 19, la sua collocazione in ferie forzate è legittima”. In quel caso, era stata reputata legittima la decisione di una struttura sanitaria che aveva posto in ferie forzate alcuni operatori “no vax”.
In conclusione, la previsione dell’obbligo di presentare il green pass in capo al personale scolastico risponde perfettamente alla ratio di tutela della salute pubblica, prevalente sul diritto a non vaccinarsi. La sospensione del docente senza green pass costituisce una conseguenza ineludibile, sia a tutela della salute pubblica, sia in ragione del venire meno della sinallagmaticità del rapporto.
Allo stato, la disciplina legislativa (art. 9 ter D.L. 52/2021) individua nei “dirigenti scolastici e i responsabili dei servizi educativi dell'infanzia nonché delle scuole paritarie e delle università” i soggetti tenuti a verificare il possesso della certificazione verde.
Quanto alle modalità di trattamento dei dati emergenti dalla certificazione, in attesa dell’emanazione del DPCM, da adottare ai sensi dell’art. 9, co. 10, del citato decreto legge n. 52/2021, non potrà che aversi riguardo alla normativa, europea e nazionale, in materia di trattamento dei dati personali.
I due decreti in commento escludono possa individuarsi nelle disposizioni che prevedono l’obbligo di esibizione del certificato verde la violazione della normativa in materia trattamento dei dati personali, nella misura in cui il personale deputato al cotrollo “abbia riportato fedelmente l’esito degli stessi al Dirigente scolastico”.
Nello stesso senso è legittima, secondo il Tar, la previsione dell’obbligo in capo al lavoratore di informare il datore di lavoro circa contatti stretti con persone positive o presenza di sintomatologia da Covid-19, trattandosi di obblogo “essenziale per individuare e circoscrivere tempestivamente situazioni di potenziale contagio al fine di assicurare il regolare svolgimento della didattica in presenza”.