Il licenziamento del lavoratore portatore di handicap per superamento del periodo di comporto è discriminatorio qualora il datore di lavoro, che conosca la situazione di invalidità del lavoratore, oppure avrebbe potuto conoscerla con diligenza, non si sia attivato, in collaborazione col lavoratore, per accertare la riconducibilità delle assenze all’invalidità, adottando in caso positivo accomodamenti ragionevoli per evitare il licenziamento.
Questo il principio affermato dalla Cassazione, con sentenza n. 14316 del 22 maggio 2024.
La vicenda decisa dalla Cassazione trae origine dalla impugnativa del licenziamento da parte del lavoratore portatore di handicap in quanto, tra l’altro, discriminatorio ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. n. 216/2003 perché tutte le assenze contestate risultavano causalmente riconducibili alla sua condizione di soggetto portatore di handicap e, comunque, in quanto disposto in violazione dell'obbligo, gravante sul datore di lavoro, di adottare tutte le adeguate misure volte a prevenire ed a evitare le conseguenze negative derivanti da patologie gravemente invalidanti del dipendente.
La Corte territoriale aveva rigettato la domanda sul presupposto che la discriminazione, quantunque indiretta, non opera oggettivamene ma presuppone la conoscenza della condizione di handicap da parte del datore di lavoro. Se, infatti, non vi è un onere del dipendente di comunicare la riconducibilità delle assenze alla malattia invalidante, non sarebbe comunque configurabile un obbligo per il datore di lavoro di controllare il nesso causale tra le assenze e la disabilità del lavoratore. E, nella fattispecie, non è stato dimostrato che la società fosse a conoscenza dello stato di handicap.
La sentenza in commento si discosta da tale conclusione, muovendo dall’assunto che, venendo in rilievo, nel caso di discriminazione indiretta, “l'effetto discriminatorio e non la condotta, come invece avviene per la discriminazione diretta”, esula dal tema “ogni problematica sul requisito della colpevolezza quale elemento costitutivo della responsabilità da comportamento discriminatorio”.
Osserva, altresì, la Corte di Cassazione che, pur operando la discriminatorietà su un piano oggettivo, “Il presupposto della conoscenza dello stato di disabilità o la possibilità di conoscerlo secondo l'ordinaria diligenza incide, evidentemente, sulla possibilità che il datore di lavoro possa fornire la prova liberatoria circa la ragionevolezza degli accomodamenti da adottare e, quindi, rappresenta un momento indispensabile nella valutazione della fattispecie”. In altre parole, la conoscenza o conoscibilità dello stato oggettivo alla base dell’effetto discriminatorio costituisce elemento rilevante ai fini della operatività, o meno, di una esimente per il datore di lavoro (negli stessi termini, Cassazione civile , sez. lav. , 31/03/2023 , n. 9095, la quale ha ritenuto integrante una discriminazione indiretta “l'applicazione dell'ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”).
Fatte queste premesse, la sentenza in commento rileva che, in tutti i casi in cui il datore di lavoro sia a conoscenza dello stato di handicap del dipendente, ovvero sia in grado di averne consapevolezza, sorge a suo carico, prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto, “un onere di acquisire informazioni - cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore - circa la eventualità che le assenze siano connesse ad uno stato di disabilità, per valutare, quindi, gli elementi utili al fine di individuare eventuali accorgimenti ragionevoli onde evitare il recesso dal rapporto”.
Di tale onere la Corte rinviene conferma anche nell’ambito delle fonti normative internazionali e, in particolare:
La sentenza conclude dunque che “'interlocuzione ed il confronto tra le parti, che si pongono su di un piano logico quale presupposto per adottare gli accomodamenti ragionevoli, rappresentano, pertanto, un fase ineludibile della fattispecie complessa del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, proprio "al fine di non sconfinare in forme di responsabilità oggettiva" e, "per verificare l'adempimento o meno dell'obbligo legislativamente imposto dal comma 3-bis", "occorre avere presente il contenuto del comportamento dovuto"; ciò perché ". esso si caratterizza non (solo) in negativo, per il divieto di comportamenti" discriminatori, "quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volto alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un'attività lavorativa" al disabile”. Quindi, “il datore è chiamato a provare, (...), di aver compiuto "uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiuri il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto"”.
Applicando tali principi al caso di specie, la sentenza in commento rileva che il datore di lavoro era a conoscenza di un “serio infortunio sul lavoro patito dal lavoratore” nonché di un “andamento delle assenze per malattia sicuramente anomalo e sintomatico di una patologia non ordinaria” per cui avrebbe dovuto coinvolgere il lavoratore “ai fini di acquisire i necessari chiarimenti in ordine alle assenze effettuate non essendo sufficiente, per ritenere giustificata l'omessa conoscenza della disabilità, che il dipendente non avesse segnalato che le patologie che avevano dato luogo alle sue assenze fossero collegate al suo handicap”.
Non esiste una risposta univoca a tale domanda.
Esistono però alcuni principi che la Cassazione ha più volte ribadito – da ultimo con l’ordinanza n. 12152/2024 che qui brevemente si commenta – che consentono di rispondere caso per caso.
Bisogna in primo luogo considerare che nel nostro ordinamento non è sancito un divieto assoluto per il lavoratore in malattia di prestare un’altra attività lavorativa, anche in favore di terzi. Ciò che rileva, infatti, è che l’evento morboso che abbia colpito il lavoratore gli impedisca di svolgere quella determinata attività oggetto del contratto di lavoro, ben potendo tuttavia accadere che le residue capacità psico-fisiche, non menomate dalla malattia, gli consentano di svolgere altre attività.
Vi sono alcuni casi, cionondimeno, in cui lo svolgimento di altre e diverse attività nel periodo di malattia può avere una rilevanza disciplinare.
Ciò si verifica quando la diversa attività svolta dal lavoratore assente per malattia (la cui prova concreta deve essere fornita in giudizio dal datore di lavoro) sia tale da “far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione” da parte del lavoratore, oppure quando la natura di tale attività, rapportata alla tipologia di infermità che provoca l’assenza dal posto di lavoro, “sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione o il rientro in servizio del lavoratore”.
Due, pertanto, le ipotesi in cui lo svolgimento di altre attività da parte del lavoratore malato – concretando una violazione del dovere generale di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto – può condurre ad un (fondato) licenziamento disciplinare del dipendente: lo svolgimento di un’attività che “svela” la natura fraudolenta dell’evento morboso oppure lo svolgimento di un’attività che pregiudica o ritarda, anche solo potenzialmente, il pieno recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore (a cui l’assenza dal posto di lavoro in ragione dello stato di malattia è ontologicamente preordinata).
Un monito, quindi: se non tutte le attività sono vietate, ciò non significa che tutte le attività sono permesse.
Nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle Poste, la nozione di pregiudizio alla società o a terzi, ossia ed eventualmente agli utenti del servizio postale – quale elemento costitutivo della causa legittimante il recesso senza preavviso, in forza della normativa contrattuale collettiva -, non comprende soltanto il danno patrimoniale ma anche l'imminente pericolo per l'interesse degli stessi soggetti.
Questo il principio affermato da Cassazione civile, sezione lavoro, 4 marzo 2024, n. 5677.
La vicenda processuale trae origine dal licenziamento del dipendente delle Poste che aveva svolto diverse operazioni sospette, tutte concernenti la negoziazione di assegni provenienti da compagnie assicurative per risarcimenti danni da infortunistica stradale, e tutte connotate da una serie di gravi irregolarità schematiche e reiterate.
I giudici di merito hanno ritenuto la legittimità del licenziamento sul presupposto che la reiterazione, in un ristretto arco temporale, delle violazioni procedurali fosse sintomatica di un complessivo modus operandi del lavoratore connotato da particolare gravità e, come tale, integrante la fattispecie di cui alla lett. k), art. 54, CCNL per il personale non dirigente di Poste Italiane. In ogni caso, sarebbe rinvenibile un potenziale pregiudizio e il discredito all'immagine per la società (elemento tipico della fattispecie di cui alla lett. c), art. 54, CCNL Poste).
Ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore censurando la sentenza di merito per avere ritenuto i fatti contestasti integranti una giusta causa di recesso, e insistendo nell’assenza di un pregiudizio, effettivo o potenziale, per il datore di lavoro.
La Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile in quanto ha censurato la sentenza di merito sotto il profilo della “ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento”, così sottoponendo alla Corte di legittimità un diverso giudizio di fatto, demandato al giudice di merito.
Sul punto è consolidato l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “L'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito - ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento - non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale” (su tutte, v. Cass. sez. lav., 20 maggio 2019, n. 13534).
In ogni caso, prendendo in considerazione le doglianze del ricorrente, la Corte rileva che i giudici del merito hanno operato “una corretta sussunzione dei fatti nell'ambito della categoria dell'inadempimento grave, rubricato all'art. 2119 c.c. ed in tale prospettiva, validamente richiamandosi anche alla "scala valoriale" enunciata dalla contrattazione collettiva di settore”.
Con riguardo alla contrattazione collettiva vengono in rilievo nella fattispecie:
La Corte di Cassazione, già in passato, al cospetto delle medesime clausole contrattuali, ha ritenuto che “ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di licenziamento, l'art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. in data 11 luglio 2007 per i dipendenti delle Poste italiane, richiede solamente il dolo generico e la mera potenzialità dannosa della condotta contestata” (Cass., sez. lav., 28 ottobre 2021, n. 30461; nello stesso senso,Cass., 4 dicembre 2017 n. 28962).
A tale conclusione si è giunti sulla base del rilievo che “anche a seguito della trasformazione in società per azioni dell'ente pubblico postale, l'impegno di capitale pubblico nella società e lo stesso fine pubblico perseguito (tali da comportare l'assoggettamento della società a verifiche periodiche da parte dell'azionista Ministero dello sviluppo economico sul livello di efficienza nella fornitura del servizio e da sottomettere l'attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost.), non sono senza riflesso quanto ai doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, i quali devono assicurare affidabilità, nei confronti del datore di lavoro e dell'utenza” (tra le prime, Cass., 19 gennaio 2015 n. 776).
Da tali principi si è tratto il corollario, proprio con riferimento all'art. 54 del c.c.n.l. Poste, che “la nozione di pregiudizio alla società o a terzi, ossia eventualmente agli utenti del servizio postale, non comprende soltanto il danno patrimoniale ma anche l'imminente pericolo per l'interesse dei soggetti coinvolti” (cfr. Cass., 5 agosto 2015, n. 16464). Nello stesso senso, ancora di recente, Cass., sez. lav., 4 luglio 2018, n. 17513, ha ribadito che “ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell'art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. del 14 aprile 2011 per i dipendenti postali, la nozione di pregiudizio alla società o a terzi è costituita non soltanto dal danno patrimoniale ma anche dall'imminente pericolo per l'interesse dei soggetti coinvolti, pertanto comprende la mera compromissione del particolare affidamento riposto dai cittadini in ordine al servizio degli invii raccomandati, scandito da precisi e rilevanti adempimenti”.
La sentenza in commento si pone nel solco di questa consolidata giurisprudenza, ribadendo il principio della sufficienza dell’imminente pericolo, e del potenziale pregiudizio, per la Società o i terzi, derivante dalla condotta del lavoratore, a integrare una giusta causa di recesso.
In questo senso, è possibile connotare come "forte" il pregiudizio arrecato alla società, nella misura in cui la condotta del dipendente, reiterativa di una operatività in contrasto con i doveri professionali, comprometta quel particolare affidamento riposto in ordine alla corretta esecuzione del servizio relativo alla gestione dei rapporti finanziari.