Nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle Poste, la nozione di pregiudizio alla società o a terzi, ossia ed eventualmente agli utenti del servizio postale – quale elemento costitutivo della causa legittimante il recesso senza preavviso, in forza della normativa contrattuale collettiva -, non comprende soltanto il danno patrimoniale ma anche l'imminente pericolo per l'interesse degli stessi soggetti.

Questo il principio affermato da Cassazione civile, sezione lavoro, 4 marzo 2024, n. 5677.

La vicenda processuale trae origine dal licenziamento del dipendente delle Poste che aveva svolto diverse operazioni sospette, tutte concernenti la negoziazione di assegni provenienti da compagnie assicurative per risarcimenti danni da infortunistica stradale, e tutte connotate da una serie di gravi irregolarità schematiche e reiterate.

I giudici di merito hanno ritenuto la legittimità del licenziamento sul presupposto che la reiterazione, in un ristretto arco temporale, delle violazioni procedurali fosse sintomatica di un complessivo modus operandi del lavoratore connotato da particolare gravità e, come tale, integrante la fattispecie di cui alla lett. k), art. 54, CCNL per il personale non dirigente di Poste Italiane. In ogni caso, sarebbe rinvenibile un potenziale pregiudizio e il discredito all'immagine per la società (elemento tipico della fattispecie di cui alla lett. c), art. 54, CCNL Poste).

Ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore censurando la sentenza di merito per avere ritenuto i fatti contestasti integranti una giusta causa di recesso, e insistendo nell’assenza di un pregiudizio, effettivo o potenziale, per il datore di lavoro.

La Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile in quanto ha censurato la sentenza di merito sotto il profilo della “ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento”, così sottoponendo alla Corte di legittimità un diverso giudizio di fatto, demandato al giudice di merito.

Sul punto è consolidato l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “L'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito - ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento - non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale” (su tutte, v. Cass. sez. lav., 20 maggio 2019, n. 13534).

In ogni caso, prendendo in considerazione le doglianze del ricorrente, la Corte rileva che i giudici del merito hanno operato “una corretta sussunzione dei fatti nell'ambito della categoria dell'inadempimento grave, rubricato all'art. 2119 c.c. ed in tale prospettiva, validamente richiamandosi anche alla "scala valoriale" enunciata dalla contrattazione collettiva di settore”.

Con riguardo alla contrattazione collettiva vengono in rilievo nella fattispecie:

  • l’art. 54, co. VI, lett. c) del CCNL Poste, a norma del quale si applica la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso “per violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla Società o a terzi”;
  • l’art. 54, co. VI, lett. k) del medesimo CCNL, il quale ricollega il licenziamento per giusta causa a “fatti o atti dolosi, anche nei confronti di terzi, compiuti in connessione con il rapporto di lavoro, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro”.

La Corte di Cassazione, già in passato, al cospetto delle medesime clausole contrattuali, ha ritenuto che “ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di licenziamento, l'art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. in data 11 luglio 2007 per i dipendenti delle Poste italiane, richiede solamente il dolo generico e la mera potenzialità dannosa della condotta contestata” (Cass., sez. lav., 28 ottobre 2021, n. 30461; nello stesso senso,Cass., 4 dicembre 2017 n. 28962).

A tale conclusione si è giunti sulla base del rilievo che “anche a seguito della trasformazione in società per azioni dell'ente pubblico postale, l'impegno di capitale pubblico nella società e lo stesso fine pubblico perseguito (tali da comportare l'assoggettamento della società a verifiche periodiche da parte dell'azionista Ministero dello sviluppo economico sul livello di efficienza nella fornitura del servizio e da sottomettere l'attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost.), non sono senza riflesso quanto ai doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, i quali devono assicurare affidabilità, nei confronti del datore di lavoro e dell'utenza” (tra le prime, Cass., 19 gennaio 2015 n. 776).

Da tali principi si è tratto il corollario, proprio con riferimento all'art. 54 del c.c.n.l. Poste, che “la nozione di pregiudizio alla società o a terzi, ossia eventualmente agli utenti del servizio postale, non comprende soltanto il danno patrimoniale ma anche l'imminente pericolo per l'interesse dei soggetti coinvolti” (cfr. Cass., 5 agosto 2015, n. 16464). Nello stesso senso, ancora di recente, Cass., sez. lav., 4 luglio 2018, n. 17513, ha ribadito che “ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell'art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. del 14 aprile 2011 per i dipendenti postali, la nozione di pregiudizio alla società o a terzi è costituita non soltanto dal danno patrimoniale ma anche dall'imminente pericolo per l'interesse dei soggetti coinvolti, pertanto comprende la mera compromissione del particolare affidamento riposto dai cittadini in ordine al servizio degli invii raccomandati, scandito da precisi e rilevanti adempimenti”.

La sentenza in commento si pone nel solco di questa consolidata giurisprudenza, ribadendo il principio della sufficienza dell’imminente pericolo, e del potenziale pregiudizio, per la Società o i terzi, derivante dalla condotta del lavoratore, a integrare una giusta causa di recesso.

In questo senso, è possibile connotare come "forte" il pregiudizio arrecato alla società, nella misura in cui la condotta del dipendente, reiterativa di una operatività in contrasto con i doveri professionali, comprometta quel particolare affidamento riposto in ordine alla corretta esecuzione del servizio relativo alla gestione dei rapporti finanziari.

Il caso

Un lavoratore, impiegato all’interno di un negozio di abbigliamento in qualità di capo-commesso, viene licenziato per giusta causa. Gli vengono contestati una pluralità di addebiti, il più grave dei quali è rappresentato dall’aver avuto, all’interno del negozio, un acceso diverbio con una dipendente, in occasione del quale il lavoratore in questione ha strattonato per il braccio la dipendente, impedendole di allontanarsi dal luogo della discussione.

Tale contestazione disciplinare era stata peraltro preceduta da altre contestazioni disciplinari, ognuna delle quali conclusasi con una sanzione disciplinare di tipo conservativo e comunque impugnate giudizialmente dal lavoratore che – evidentemente – le riteneva ingiuste ed illegittime.

Se il Tribunale di Padova ha ritenuto non integrata la giusta causa di recesso, e purtuttavia sussistente il fatto contestato, con conseguente applicazione del regime sanzionatorio di cui all’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970, la Corte d’Appello di Venezia ha invece ritenuto di poter ravvisare un indizio dell’intento ritorsivo della società recedente nell’assenza di proporzionalità tra la sanzione espulsiva e la gravità dell’addebito, con conseguente dichiarazione di nullità del recesso e applicazione del regime sanzionatorio che prevede la reintegrazione del posto di lavoro e la corresponsione al lavoratore delle retribuzioni medio tempore maturate dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione.

La soluzione prospettata dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 741/2024

La Corte muove innanzi tutto da una ricognizione “teorica” del licenziamento ritorsivo attraverso il richiamo ad alcuni, propri precedenti: esso è “l’ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore...che attribuisce al licenziamento il connotato dell’ingiustificata vendetta” (in questi termini esatti Cass. n. 17087/2011 e Cass. n. 24648/2015 richiamate dalla pronuncia che qui si brevemente si annota). Si tratta di una costruzione giurisprudenziale che si fonda sull’applicabilità agli atti unilaterali, quali il licenziamento, della norma di cui all’art. 1345 c.c., cioè di quella disposizione che “derogando al principio secondo il quale i motivi dell’atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti”; con l’ulteriore precisazione che il licenziamento è ritorsivo se è finalizzato “esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l’illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell’articolo 1343 cod. civ., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”.

Il licenziamento ritorsivo, che è fattispecie diversa e distinta da quella del licenziamento discriminatorio (sul tema si rinvia a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/alcuni-principi-in-materia-di-licenziamento-discriminatorio/) è quindi tale se, e nella misura in cui, integra un motivo illecito determinante: in altri termini, deve potersi rinvenire nel motivo illecito un’“efficacia determinativa esclusiva” della volontà datoriale di recedere, essendo richiesta “la prova che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso e idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto”. E, precisa la Suprema Corte, trattandosi di un onere probatorio (che logicamente incombe sul lavoratore) particolarmente difficoltoso, potrà essere assolto tramite il ricorso a presunzioni “tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole”.

Si potrebbe obiettare che si tratta di una prova talmente difficile da fornire da risultare “quasi diabolica” per il lavoratore, posto che, per escludere la sussistenza di un motivo illecito determinante, sarebbe sufficiente per il datore di lavoro provare un qualsiasi fatto, pur se avente tenue rilievo disciplinare, per far sì che l’intento ritorsivo dell’espulsione del lavoratore dal contesto produttivo non venga in rilievo: in tale ipotesi, infatti, il licenziamento sarebbe senz’altro illegittimo, perché non sorretto da una valida causa di recesso, ma l’intento ritorsivo rimarrebbe appunto celato. Ma così non è, chiarisce la Corte, perché se “la concreta valutazione della gravità dell’addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva...può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento, occorrendo, perché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinante che la ragione addotta e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l’intimazione del licenziamento, si che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo”.

Pertanto, riformando la sentenza della Corte di Appello di Venezia, con la pronuncia che qui si è brevemente commentata la  Cassazione ha chiarito che per poter ritenere sussistente un motivo illecito determinate, rectius, un motivo ritorsivo, non è sufficiente ravvisare la mera sproporzione tra la gravità dell’inadempimento del lavoratore e il licenziamento, “ma è necessario che la prova presuntiva poggi su elementi ulteriori, come l’elevato grado di sproporzione della sanzione espulsiva, anche rispetto alla scala valoriale espressa dalla contrattazione collettiva, idonei a giustificare la collocazione dell’atto datoriale nella sfera della illiceità, anziché in quella della illegittimità”.

Una dipendente viene licenziata sulla base di elementi riscontrati dalla datrice di lavoro mediante accessi nel computer aziendale. A seguito all’accertamento della diffusione di un virus nella rete aziendale, l’amministrazione del sistema informatico aveva eseguito un accesso sul computer della lavoratrice, appurando che, nella cartella di download, era presente il file scaricato che aveva propagato il virus che, diffondendosi, aveva danneggiato numerose cartelle di rete. In occasione del medesimo intervento erano emersi numerosi accessi, da parte della lavoratrice, a siti consultati per ragioni private, per un tempo lungo a tal punto da integrare una sostanziale interruzione della prestazione lavorativa. La lavoratrice era stata così licenziata per giusta causa.

Le informazioni acquisite dalla datrice di lavoro potevano essere effettivamente utilizzate ai fini disciplinari?

Ci eravamo occupati tempo fa di questa vicenda, commentando la ormai nota sentenza della Cassazione (Cass. 22 settembre 2021, n. 25732) che, nell’accogliere il ricorso della lavoratrice, aveva ritenuto che la Corte territoriale avesse omesso ogni valutazione circa il corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali e le imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore (Controllo del lavoratore a distanza: quando sono legittimi i c.d. controlli difensivi?).

Ora è toccato alla Corte d’Appello di Roma (sentenza n. 4371 del 24 novembre 2023) applicare il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte secondo cui “sono consentiti i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto”.

La conclusione dell’accertamento svolto dal Collegio è favorevole alla lavoratrice: l’acquisizione dei dati informatici utilizzati in sede disciplinare era stata effettuata prima dell’insorgere del fondato sospetto dell’espletamento di attività illecite da parte della lavoratrice, atteso che proprio dai dati raccolti erano emerse le condotte poi oggetto di contestazione.

Come ha ricordato la Corte d’Appello di Roma, richiamando la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 18168/2023 (per un commento si veda Ancora sui controlli difensivi: Cass. n. 18168/2023 ribadisce alcuni principi), incombe sul datore di lavoro l’onere di allegare prima e provare poi le specifiche circostanze che lo hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico ex post, considerato che “solo tale “fondato sospetto” consente al datore di lavoro di porre la sua azione al di fuori del perimetro di applicazione diretta dell’art. 4 St. lav. e tenuto altresì conto del più generale criterio legale ex art. 5 l. n. 604 del 1966 che grava la parte datoriale dell’onere di provare il complesso degli elementi che giustificano il licenziamento”.

Nel caso di specie, la Fondazione datrice di lavoro non aveva dedotto la sussistenza di concreti e riconoscibili indizi della commissione di comportamenti illeciti da parte della lavoratrice prima dell’acquisizione dei dati contenuti nel computer alla stessa assegnato.

Pertanto, in applicazione del principio di diritto sancito dalla Suprema Corte, la Corte d’Appello ha escluso che l’acquisizione dei dati informatici rientrasse nei controlli difensivi.

Inoltre, secondo la Corte, l’istruttoria svolta aveva escluso che la datrice avesse fornito una specifica informazione sul trattamento e sulla conservazione dei dati personali relativi alle navigazioni internet effettuate dai dipendenti.

Pertanto, i dati relativi agli accessi della lavoratrice alla cronologia della navigazione su internet erano inutilizzabili ai fini disciplinari, con conseguente insussistenza dei fatti contestati.

La Corte ha così dichiarato il licenziamento illegittimo, con conseguente condanna della datrice alla immediata reintegrazione nel posto di lavoro.

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