Il caso
Un lavoratore, impiegato all’interno di un negozio di abbigliamento in qualità di capo-commesso, viene licenziato per giusta causa. Gli vengono contestati una pluralità di addebiti, il più grave dei quali è rappresentato dall’aver avuto, all’interno del negozio, un acceso diverbio con una dipendente, in occasione del quale il lavoratore in questione ha strattonato per il braccio la dipendente, impedendole di allontanarsi dal luogo della discussione.
Tale contestazione disciplinare era stata peraltro preceduta da altre contestazioni disciplinari, ognuna delle quali conclusasi con una sanzione disciplinare di tipo conservativo e comunque impugnate giudizialmente dal lavoratore che – evidentemente – le riteneva ingiuste ed illegittime.
Se il Tribunale di Padova ha ritenuto non integrata la giusta causa di recesso, e purtuttavia sussistente il fatto contestato, con conseguente applicazione del regime sanzionatorio di cui all’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970, la Corte d’Appello di Venezia ha invece ritenuto di poter ravvisare un indizio dell’intento ritorsivo della società recedente nell’assenza di proporzionalità tra la sanzione espulsiva e la gravità dell’addebito, con conseguente dichiarazione di nullità del recesso e applicazione del regime sanzionatorio che prevede la reintegrazione del posto di lavoro e la corresponsione al lavoratore delle retribuzioni medio tempore maturate dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione.
La soluzione prospettata dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 741/2024
La Corte muove innanzi tutto da una ricognizione “teorica” del licenziamento ritorsivo attraverso il richiamo ad alcuni, propri precedenti: esso è “l’ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore...che attribuisce al licenziamento il connotato dell’ingiustificata vendetta” (in questi termini esatti Cass. n. 17087/2011 e Cass. n. 24648/2015 richiamate dalla pronuncia che qui si brevemente si annota). Si tratta di una costruzione giurisprudenziale che si fonda sull’applicabilità agli atti unilaterali, quali il licenziamento, della norma di cui all’art. 1345 c.c., cioè di quella disposizione che “derogando al principio secondo il quale i motivi dell’atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti”; con l’ulteriore precisazione che il licenziamento è ritorsivo se è finalizzato “esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l’illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell’articolo 1343 cod. civ., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”.
Il licenziamento ritorsivo, che è fattispecie diversa e distinta da quella del licenziamento discriminatorio (sul tema si rinvia a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/alcuni-principi-in-materia-di-licenziamento-discriminatorio/) è quindi tale se, e nella misura in cui, integra un motivo illecito determinante: in altri termini, deve potersi rinvenire nel motivo illecito un’“efficacia determinativa esclusiva” della volontà datoriale di recedere, essendo richiesta “la prova che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso e idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto”. E, precisa la Suprema Corte, trattandosi di un onere probatorio (che logicamente incombe sul lavoratore) particolarmente difficoltoso, potrà essere assolto tramite il ricorso a presunzioni “tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole”.
Si potrebbe obiettare che si tratta di una prova talmente difficile da fornire da risultare “quasi diabolica” per il lavoratore, posto che, per escludere la sussistenza di un motivo illecito determinante, sarebbe sufficiente per il datore di lavoro provare un qualsiasi fatto, pur se avente tenue rilievo disciplinare, per far sì che l’intento ritorsivo dell’espulsione del lavoratore dal contesto produttivo non venga in rilievo: in tale ipotesi, infatti, il licenziamento sarebbe senz’altro illegittimo, perché non sorretto da una valida causa di recesso, ma l’intento ritorsivo rimarrebbe appunto celato. Ma così non è, chiarisce la Corte, perché se “la concreta valutazione della gravità dell’addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva...può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento, occorrendo, perché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinante che la ragione addotta e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l’intimazione del licenziamento, si che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo”.
Pertanto, riformando la sentenza della Corte di Appello di Venezia, con la pronuncia che qui si è brevemente commentata la Cassazione ha chiarito che per poter ritenere sussistente un motivo illecito determinate, rectius, un motivo ritorsivo, non è sufficiente ravvisare la mera sproporzione tra la gravità dell’inadempimento del lavoratore e il licenziamento, “ma è necessario che la prova presuntiva poggi su elementi ulteriori, come l’elevato grado di sproporzione della sanzione espulsiva, anche rispetto alla scala valoriale espressa dalla contrattazione collettiva, idonei a giustificare la collocazione dell’atto datoriale nella sfera della illiceità, anziché in quella della illegittimità”.
Una dipendente viene licenziata sulla base di elementi riscontrati dalla datrice di lavoro mediante accessi nel computer aziendale. A seguito all’accertamento della diffusione di un virus nella rete aziendale, l’amministrazione del sistema informatico aveva eseguito un accesso sul computer della lavoratrice, appurando che, nella cartella di download, era presente il file scaricato che aveva propagato il virus che, diffondendosi, aveva danneggiato numerose cartelle di rete. In occasione del medesimo intervento erano emersi numerosi accessi, da parte della lavoratrice, a siti consultati per ragioni private, per un tempo lungo a tal punto da integrare una sostanziale interruzione della prestazione lavorativa. La lavoratrice era stata così licenziata per giusta causa.
Le informazioni acquisite dalla datrice di lavoro potevano essere effettivamente utilizzate ai fini disciplinari?
Ci eravamo occupati tempo fa di questa vicenda, commentando la ormai nota sentenza della Cassazione (Cass. 22 settembre 2021, n. 25732) che, nell’accogliere il ricorso della lavoratrice, aveva ritenuto che la Corte territoriale avesse omesso ogni valutazione circa il corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali e le imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore (Controllo del lavoratore a distanza: quando sono legittimi i c.d. controlli difensivi?).
Ora è toccato alla Corte d’Appello di Roma (sentenza n. 4371 del 24 novembre 2023) applicare il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte secondo cui “sono consentiti i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto”.
La conclusione dell’accertamento svolto dal Collegio è favorevole alla lavoratrice: l’acquisizione dei dati informatici utilizzati in sede disciplinare era stata effettuata prima dell’insorgere del fondato sospetto dell’espletamento di attività illecite da parte della lavoratrice, atteso che proprio dai dati raccolti erano emerse le condotte poi oggetto di contestazione.
Come ha ricordato la Corte d’Appello di Roma, richiamando la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 18168/2023 (per un commento si veda Ancora sui controlli difensivi: Cass. n. 18168/2023 ribadisce alcuni principi), incombe sul datore di lavoro l’onere di allegare prima e provare poi le specifiche circostanze che lo hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico ex post, considerato che “solo tale “fondato sospetto” consente al datore di lavoro di porre la sua azione al di fuori del perimetro di applicazione diretta dell’art. 4 St. lav. e tenuto altresì conto del più generale criterio legale ex art. 5 l. n. 604 del 1966 che grava la parte datoriale dell’onere di provare il complesso degli elementi che giustificano il licenziamento”.
Nel caso di specie, la Fondazione datrice di lavoro non aveva dedotto la sussistenza di concreti e riconoscibili indizi della commissione di comportamenti illeciti da parte della lavoratrice prima dell’acquisizione dei dati contenuti nel computer alla stessa assegnato.
Pertanto, in applicazione del principio di diritto sancito dalla Suprema Corte, la Corte d’Appello ha escluso che l’acquisizione dei dati informatici rientrasse nei controlli difensivi.
Inoltre, secondo la Corte, l’istruttoria svolta aveva escluso che la datrice avesse fornito una specifica informazione sul trattamento e sulla conservazione dei dati personali relativi alle navigazioni internet effettuate dai dipendenti.
Pertanto, i dati relativi agli accessi della lavoratrice alla cronologia della navigazione su internet erano inutilizzabili ai fini disciplinari, con conseguente insussistenza dei fatti contestati.
La Corte ha così dichiarato il licenziamento illegittimo, con conseguente condanna della datrice alla immediata reintegrazione nel posto di lavoro.
La denuncia del lavoratore di fatti addebitati al datore di lavoro è fonte di responsabilità disciplinare qualora il medesimo lavoratore sia consapevole dell’insussistenza dell’illecito o dell’estraneità allo stesso del denunciato.
Questo il principio affermato da Cassazione, Sez. Lavoro, ordinanza del 6 novembre 2023, n. 30866.
La vicenda decisa dalla Suprema Corte trae origine dalla contestazione disciplinare mossa nei confronti di un lavoratore, per avere questi denunciato una indebita appropriazione del TFR con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata.
I Giudici di merito avevano ritenuto la legittimità del licenziamento affermando che la rappresentazione dolosa di fatti pacificamente non veritieri è incompatibile con l’elemento fiduciario caratterizzante ogni rapporto di lavoro.
Ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, sostenendo l’insussistenza del fatto contestato, per avere gli atti di denuncia rispettato il principio di continenza, e comunque la non riconducibilità dei medesimi fatti a una giusta causa di recesso.
L’ordinanza in commento disattende le censure del lavoratore ritenendo, innanzi tutto, non pertinente il richiamo alla continenza, posto che l’illiceità della denuncia del lavoratore era stata ricollegata, in sede disciplinare, non alla forma degli atti, ma al loro contenuto, valutato, nel merito, come “puramente strumentale, e non pertinente all'effettiva tutela del diritto di credito del lavoratore, perché basato su dati non veritieri e contabilmente scorretti”.
A differenza delle ipotesi nelle quali è in discussione l'esercizio del diritto di critica, in caso di denuncia e di querela non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio.
In altre parole, il rilievo disciplinare della condotta del lavoratore non è stato ricondotto alla configurabilità del reato di calunnia o diffamazione, ma all’abuso del processo, per effetto della “strumentalizzazione a fine puramente emulativo dello strumento della denuncia penale e dei diritti della persona offesa nel procedimento penale medesimo”. Fine emulativo “desunto dalla (ritenuta in fatto conformemente nelle fasi di merito) consapevole omissione di circostanze significative nella descrizione dei fatti con riferimento alle somme già percepite e alla superflua duplicazione di questioni già oggetto di contenzioso civile tra le parti”.
La Corte conclude, quindi, che “se … l'esercizio del potere di denuncia (e in generale del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro) non può essere di per sé fonte di responsabilità, esso può divenire tale qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell'insussistenza dell'illecito o dell'estraneità allo stesso dell'incolpato”.
Tale principio, ancora di recente, è stato affermato da Cass., sez. lav., 11 ottobre 2022, n. 29526, la quale ha affermato l’illiceità della condotta del lavoratore in relazione ad una denuncia presentata “non per rimuovere una situazione di illegalità o per tutelare i diritti del querelante ma con la volontà di danneggiare il datore di lavoro per vendicarsi del mancato riconoscimento delle proprie rivendicazioni”.
In questa prospettiva, la condotta del lavoratore, che denuncia strumentalmente una condotta del datore di lavoro, non è scriminata per effetto del richiamo al diritto di critica, ed anzi integra la violazione del dovere di fedeltà ex art. 2105 c.c., letto in rapporto ai canoni di correttezza e buona fede, perché “contraria ai doveri derivanti dall'inserimento del lavoratore nell'organizzazione imprenditoriale e comunque idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario”.
Come chiarito in precedenza da Cass., sez. lav., 26 settembre 2017, n. 22375, è di per sé irrilevante la circostanza che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento venga definito con la archiviazione della notitia criminis o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa.
Quanto alla sussistenza della giusta causa, la Corte muove dal principio, ormai consolidato, secondo cui, configurando l’art. 2119 c.c. una norma elastica (“che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica”), la valutazione del Giudice del merito “è dunque sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione” (Cassazione, con ordinanza del 9 marzo 2023, n. 7029, pubblicata sul nostro sito, con nota dal titolo "Espressioni omofobe nei confronti della collega lesbica: legittimo il licenziamento per giusta causa").
Su queste premesse, l’ordinanza in commento esclude che la valutazione di merito circa l’integrazione della giusta causa di recesso per effetto della “condotta di strumentalizzazione di denuncia in sede penale di fatti consapevolmente non veritieri e con dati di fatto alterati” integri un vizio di sussunzione, confermando, anche sotto tale profilo, la legittimità del provvedimento disciplinare.