Il caso da cui origina la pronuncia

Un lavoratore – che nell’ultimo anno di servizio è stato assente per malattia in un numero di giorni che effettivamente è superiore a quello del periodo di comporto per sommatoria – viene licenziato dal datore di lavoro in ragione del superamento del periodo di comporto.

L’atto di recesso viene impugnato giudizialmente dal lavoratore che ne deduce l’illegittimità per varie ragioni. Prima fra tutte, la mancata ricezione, nell’approssimarsi del completamento del periodo di comporto, di una comunicazione datoriale idonea ad informarlo dell’imminente superamento dell’anzidetto periodo, tanto più che, nel caso di specie, i prospetti presenza (che mensilmente erano allegati alle buste paga inviategli dal datore) indicavano un numero di assenze inferiore al numero delle assenze effettivamente realizzate e, soprattutto, inferiore a quello successivamente conteggiato dal datore in sede di licenziamento.

La soluzione della Corte di Appello di Roma

La Corte territoriale, innanzi tutto, chiarisce che il requisito della motivazione del licenziamento, così come sancito dall’art. 2 della L. n. 604/1966, è senz’altro rispettato allorquando nella lettera di licenziamento, come appunto avvenuto nel caso di specie, sono esaustivamente indicati, sia il numero dei giorni complessivi di assenze per malattia fatte registrare dal lavoratore, sia i periodi temporali in cui tali assenze si collocano. La circostanza specifica che le indicazioni della lettera di licenziamento non coincidano con le risultanze dei prospetti presenza (inviati mensilmente al lavoratore insieme alle buste paga) non incide sul requisito della motivazione del recesso, che, pertanto, deve ritenersi chiara ed intellegibile.

Tuttavia, osserva la Corte, la discrasia oggettivamente esistente tra i prospetti presenza allegati mensilmente alle buste paga (che riportano, erroneamente, un numero di assenze inferiore a quello oggettivamente realizzato dal lavoratore) e le indicazioni contenute nella lettera di licenziamento (la quale, sulla base dei certificati di malattia INPS prodotti in giudizio, corrispondono alle effettive assenze fatte registrare del lavoratore) rileva nella misura in cui ha ingenerato nel lavoratore un incolpevole affidamento sul fatto di aver accumulato un numero di giorni di assenza per malattia non idoneo a determinare, di lì a poco, un imminente superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL.

Se quindi, in via generale e astratta, la Corte di Appello di Roma afferma esplicitamente di condividere il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in assenza di una specifica previsione del CCNL applicato al rapporto, il datore di lavoro non è obbligato ad avvertire il lavoratore dell’imminente scadenza del periodo di comporto, nel caso di specie, al contrario, l’aver indotto il lavoratore in errore (per il tramite dell’invio mensile, e dunque reiterato, di prospetti presenza recanti indicazioni erronee) fa sì che il successivo licenziamento che si basi sul (diverso) numero delle assenze effettivamente fatte registrare dal lavoratore sia non conforme all’obbligo di buona fede e correttezza comunque gravante sul datore di lavoro. In altri termini, nel caso di specie, ai fini della legittimità del recesso sarebbe stato necessario che il datore di lavoro avvertisse il lavoratore del prossimo compimento del periodo di comporto, informandolo in merito all’erroneità dei dati riepilogativi delle sue assenze comunicatigli mensilmente con le buste paga.

Inoltre, osserva la Corte al fine di contrastare una delle argomentazioni difensive della società, la possibilità del lavoratore di consultare il sito internet dell’INPS e di avvedersi autonomamente di quale fosse l’effettivo numero delle sue assenze non consente di ritenere che licenziamento sia legittimo: “quand’anche questa verifica fosse stata compiuta, comunque sarebbe rimasto nel reclamante il ragionevole affidamento – indotto dal reiterato comportamento datoriale – nel fatto che il proprio datore di lavoro avrebbe considerato rilevanti, ai fini del comporto, solo alcune di quelle assenze e non tutte[1].

La rilevanza del principio di buona fede e correttezza

Da quanto sopra siricava che, nel caso in cui le condotte precedenti al licenziamento abbiano un inequivoco significato tale da far ragionevolmente presumere la volontà del datore di lavoro di conteggiare, ai fini del comporto, solo alcune assenze per malattia fatte registrare dal lavoratore, il dato “oggettivo ed indubitabile” del superamento di detto periodo (così come determinato dalla considerazione numerica di tutte le assenze per malattia del lavoratore) non è di per sé sufficiente a determinare la legittimità del relativo recesso. Tale conclusione è il portato della applicabilità anche al rapporto di lavoro, così come a qualsiasi altro rapporto obbligatorio, della regoladi buona fede e correttezza, la cui “rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge[2] .

Attenzione, dunque, perché anche un potere datoriale in astratto esistente – quello di licenziare un lavoratore che ha superato il periodo di comporto – può essere invalidato, se è stato esercitato in un contesto ‘inquinato’ da una precedente condotta del medesimo datore contraria a buona fede.


[1] Così, a pagina 8, la sentenza qui brevemente annotata.

Tale passo della sentenza qui annotata è maggiormente comprensibile se si considera il dato che l’art. 16 co. 14 del CCNL applicato al rapporto prevede che “le giornate di malattia derivante da documentate patologie particolarmente gravi e/o invalidanti (affezioni in forme meno acute e/o croniche, patologie oncologiche, sclerosi multipla o distrofie muscolari) non verranno computate ai fini dei termini previsti dal presente articolo”. Ne deriva che, nel ragionamento operato dalla Corte, un’eventuale verifica compiuta dal lavoratore sul portale INPS non avrebbe consentito di escludere il suo ragionevole affidamento sul fatto che solo alcuni periodi di assenza per malattia dal medesimo fatti registrare venivano computati dal datore di lavoro ai fini del calcolo del comporto.

[2] In questi termini, tra le più recenti, Cassazione civile sez. III, 14/06/2021, n.16743

Il caso da cui origina la pronuncia

Una lavoratrice, che da meno di un anno è diventata madre, si assenta ingiustificatamente dal lavoro per un periodo superiore ai cinque giorni. Il contratto collettivo che si applica al rapporto di lavoro prevede che l’assenza ingiustificata del dipendente per un periodo superiore ai cinque giorni integri un’ipotesi di giusta causa di licenziamento, motivo per il quale il datore di lavoro intima il licenziamento della lavoratrice ai sensi dell’art. 2119 c.c.

La soluzione del Tribunale di Brescia.

Il Giudice di merito, innanzi tutto, muove dalla ricognizione della disciplina legale che regolamenta la fattispecie del licenziamento della lavoratrice madre, rilevando che l’art. 54 del D. Lgs n. 151/2001 sancisce un vero e proprio divieto di licenziamento della lavoratrice-madre, dal periodo di inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di vita del bambino. Tale divieto, tuttavia, non è assoluto, ma appunto ammette delle eccezioni tipizzate dal legislatore: tra queste, per quel che qui rileva, il caso della “colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro”.

Ciò chiarito, il Tribunale di Brescia ha affermato che, in presenza di tale esplicito divieto di licenziamento – sancito dalla legge in considerazione della peculiare condizione, e funzione sociale, della donna-lavoratrice che ha partorito da meno di un anno – l’ipotesi derogatoria della colpa grave che integra una giusta causa di licenziamento costituisce una “fattispecie autonoma”, distinta dalle “ordinarie” causali di licenziamento disciplinare, quali la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo. Richiamando a sostegno della propria decisione alcune sentenze della Suprema Corte nell’ambito delle quali si è chiarito che la “colpa grave” che giustifica il licenziamento della lavoratrice-madre costituisce una fattispecie di giusta causa connotata da maggior disvalore e gravità (ed in particolare: Cass. civ. Sez. lav. n. 19912/2011; Cass. civ. Sez. lav. n. 2004/2017), il Tribunale giunge alla conclusione che il datore di lavoro si è limitato a richiamare la previsione del contratto collettivo che qualifica in termini di giusta causa una data condotta del lavoratore, senza appunto dimostrare che “la condotta della prestatrice possa aver integrato gli estremi di una colpa grave, né tanto meno” illustrare “le ragioni secondo cui sarebbe stato inoperante il divieto legale di licenziamento”. Il licenziamento è conseguentemente nullo ai sensi dell’art. 18, co. 1, L. n. 300/1970, appunto perché il datore di lavoro, sul quale grava il relativo onere probatorio, non ha dimostrato la ricorrenza dei presupposti causali, quali appunto la colpa grave “costituente gusta causa per la risoluzione del rapporto”, la cui sussistenza è invece necessaria affinché sia inoperante l’esplicito divieto di licenziamento della lavoratrice madre sancito dall’art. 54 D.Lgs. 151/2001.

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram