Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza del 15 settembre 2022, interviene in materia di licenziamento per eccessiva “morbilità” del lavoratore.

Il caso all’esame del Tribunale ha riguardato la reiterata assenza per malattia di un dipendente per brevi periodi di tempo, a ridosso delle giornate di riposo, festività, permessi o periodi di ferie. La società datrice di lavoro ha contestato, in particolare, al lavoratore la scarsa diligenza nell’esecuzione della prestazione lavorativa dovuta appunto alla eccessiva “morbilità”, lamentando i gravi disagi e gli eccessivi costi subiti dall’azienda per far fronte all’esigenza di garantire comunque il servizio reso. La Società ha quindi disposto il licenziamento del dipendente.

Il Tribunale territoriale, premesso che la malattia del lavoratore è disciplinata dalle regole speciali dettate dall’art. 2110 c.c., ha chiarito che “le reiterate assenze del lavoratore…non costituiscono di per sé inadempimento (trattandosi di assenze pur sempre giustificate”).  Muovendo da tale premessa, il Tribunale di Napoli ha precisato che solo il superamento del periodo di comporto “è causa giustificativa del licenziamento, di per sé, esaustiva”; mentre, nel caso di mancato superamento di tale limite (quale era il caso scrutinato) “dal datore di lavoro andranno allegati (e conseguentemente provati) ulteriori motivi” (quali, ad es. l’inidoneità fisica del lavoratore affetto da eccesiva morbilità, ovvero una grave condotta fraudolenta o negligente che integri gli estremi della violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione della prestazione lavorativa).

Nel caso di specie, la condotta fraudolenta, elusiva del principio di buona fede, è stata dalla Società datrice di lavoro ricondotta alla circostanza che le assenze venivano comunicate dal lavoratore in successione ad un giorno festivo o a ridosso di una giornata di riposo. Il Tribunale di Napoli ha, tuttavia, escluso che tale condotta fosse sufficiente per giustificare il licenziamento del lavoratore. Secondo il Tribunale, infatti, “l’eccessiva morbilità non può integrare, di per sé, gli estremi dello scarso rendimento”; mentre non era stato dimostrato dalla società che le assenze per malattia a ridosso di giornate di congedo accordate per ragioni diverse fossero il frutto di una preordinazione tesa a beneficiare di un’assenza più lunga. Il Tribunale ha quindi annullato il licenziamento per giusta causa, condannando la società alla reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18, comma 7, L. 300/1970 e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegra.

In conclusione, secondo il Tribunale territoriale, l’eccessiva morbilità del lavoratore non è idonea, di per sé sola, a legittimare il licenziamento dello stesso per scarso rendimento; è invece possibile procedere in tale senso se è fornita dal datore di lavoro la prova che le reiterate assenze del lavoratore integrano la violazione della diligente collaborazione, e quindi del canone di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto.

20220915_Trib-Napoli.pdf (wikilabour.it)

Con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022 la sezione lavoro della Corte di Cassazione si è espressa in materia di prescrizione di crediti di lavoro affermando il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

I fatti di causa

La Corte d’appello di Brescia aveva respinto le domande di pagamento delle differenze retributive avanzate da due lavoratrici, le sig.re M.C.P e A.B., loro spettanti per l’accertamento del diritto al riconoscimento dell’orario straordinario notturno, in quanto eccedenti la prescrizione quinquennale.

Ai fini della decorrenza della prescrizione, la Corte d’appello aveva negato che le due lavoratrici si trovassero in una condizione psicologica di timore (metus) che aveva impedito loro di avanzare le pretese creditorie relative alle predette differenze retributive durante il corso del rapporto di lavoro temendo possibili reazioni del datore di lavoro comportanti la risoluzione del rapporto di lavoro.

Alla base del ragionamento svolto dal giudice di 2° grado vi era “la permanenza della stabilità reale del rapporto di lavoro” anche dopo la novellazione dell’art. 18 legge n. 300/1970, per effetto della legge n. 92/2012 (c.d. “riforma Fornero”) e del decreto legislativo n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”).

La condizione psicologica di timore, secondo la Corte d’appello bresciana, non poteva essere riconosciuta a fronte del mantenimento di una tutela ripristinatoria piena in caso di licenziamento intimato per ritorsione, e dunque discriminatorio, ovvero per motivo illecito determinante.

Nel rigettare la pretesa delle lavoratrici la Corte d’appello aveva ribadito l’irrilevanza del fatto che con le predette riforme vi fosse stata un’attenuazione della tutela per un licenziamento fondato su ragioni (giusta causa o giustificato motivo) estranee alle predette rivendicazioni retributive.

Il ricorso per cassazione

Con ricorso affidato ad un unico motivo le sig.re M.C.P e A.B. impugnavano la sentenza di secondo grado davanti alla Corte di Cassazione, lamentando la violazione degli artt. 2935, 2948, n. 4, c.c., 18 l. 300/1970, 36 Cost., per avere la Corte d’appello di Brescia ritenuto, anche dopo la novellazione dell’art. 18 l. 300/1970 ad opera della riforma Fornero e del Jobs Act, la vigenza di un regime di stabilità del rapporto di lavoro.

Secondo la prospettazione delle ricorrenti, poteva intendersi “rapporto stabile di lavoro”, solo quel “rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo”.

In via subordinata, le due lavoratrici hanno sollevato questione di illegittimità costituzionale degli art. 2935 e 2948, n. 4, c.c. con riferimento all’art. 36 Cost. sostenendo che un regime di stabilità del rapporto di lavoro, che sia idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, non può essere integrato da un regime che preveda la tutela reintegratoria, come dispositivo sanzionatorio, per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo.

I principi affermati dalla Corte di Cassazione

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha accolto le argomentazioni delle lavoratrici, ritenendo fondato il ricorso dalle stesse proposto.

Nel prendere la sua decisione la Suprema Corte ha ritenuto di poter rispondere al dubbio di costituzionalità, sollevato dalle ricorrenti, senza dover interpellare la Corte Costituzionale, ma richiamando “l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il c.d. diritto vivente)”.

Il focus della questione, che la Corte si è trovata a dirimere nella sentenza in commento, riguarda il momento di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4, c.c. in relazione all’art. 2935 c.c., per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di stabilità o meno del rapporto di lavoro.

A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale prevalente, la stabilità del rapporto di lavoro, secondo la Corte, si fonderebbe “su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”

In relazione alla prescrizione, nella sentenza la Corte ha ribadito l’importanza del principio della certezza del diritto, in quanto segno di civiltà giuridica di un Paese, in quanto consente allo Stato di essere attrattivo per investimenti e iniziative di intrapresa economica all’interno del contesto internazionale “nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese”.

La Corte invita poi a riflettere sul doveroso coordinamento di tali principi con la disciplina dei rapporti di lavoro oggi più flessibilmente modulata in ordine alle varie forme di tutela previste nelle varie ipotesi di licenziamento.

Da tale punto di vista, emerge la necessità che il dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore sia ancorato ad un criterio certo che soddisfi un’esigenza di conoscibilità di quelle regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.

Ne deriva che entrambe le parti del rapporto di lavoro - compreso dunque anche il datore di lavoro - siano consapevoli, fin dall’instaurazione del predetto rapporto, non solo di quali siano i diritti che ciascuno può far valere, ma anche “fino a quando” è possibile farli valere.

La Corte, nella sentenza in commento, evidenzia come anche per il datore di lavoro sia fondamentale conoscere, fin dall’instaurazione del rapporto, quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti al fine di programmare “una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d'impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino”.

La pronuncia distingue inoltre il “diritto al lavoro” dal “diritto al posto di lavoro”.

Mentre il primo è riconosciuto a tutti i cittadini dalla Costituzione della Repubblica, che ne deve promuovere le condizioni che lo rendano effettivo, il secondo è invece “oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa”.

Nelle situazioni di crisi, ricorda la Corte, la tutela del posto di lavoro può cedere di fronte a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, “inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell'occupazione possibile con la condizione di crisi data”.

Il diritto al lavoro, nell’insegnamento dato dalla Corte Costituzionale, pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione né, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto, costituisce diritto fondamentale di libertà ed impone allo Stato non solo di creare le condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, ma anche di introdurre “garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte Cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, p.to 4)”.

Ai fini di una chiara individuazione del termine di decorrenza della prescrizione, occorre dunque che la stabilità o meno del rapporto di lavoro risulti:

a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato […];

b) parimenti, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all'esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post (Cass. s.u. 28 marzo 2012, n. 4942; Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774)”.

L'individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, perché possa dirsi coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, ribadisce la Corte, non può dipendere da una qualificazione del Giudice effettuata ex post.

Come noto, la riforma operata con la L. n. 92 del 2012 e con il D.Lgs. n. 23 del 2015 ha segnato il passaggio da un’automatica applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento “ad un’applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. "piena" o "forte", ovvero "attenuata" o "debole") assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, p.to 9.2)”.

Nonostante gli sforzi della giurisprudenza volti ad estendere i casi in cui può essere disposta la tutela reintegratoria, quest’ultima ormai non costituisce più la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

Neppure può dirsi che il quadro normativo sia stato modificato dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale (del 7.4.2022, n. 125 e del 24.02.2021, n. 59) con le quali è stata “dichiarata l'illegittimità costituzionale del novellato testo del L. n. 300 del 1970 art. 18 comma 7, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l'insussistenza "manifesta" del fatto posto alla base del recesso (Corte Cost. 7 aprile 2022, n. 125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere "può" come "deve"), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte Cost. 24 febbraio 2021, n. 59)”.

Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione, preso atto del mutato quadro normativo e tenuto conto degli orientamenti della giurisprudenza anche costituzionale, ha ritenuto l’attuale regime delineato dall’art. 18 della L. 300 del 1970 non in grado di assicurare un’adeguata stabilità del rapporto di lavoro con la conseguenza che “la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione "contro ogni illegittima risoluzione" nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell'art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava”.

La Corte di Cassazione, a conclusione del suo ragionamento, dopo aver ritenuto di escludere, “per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità”, ha affermato “la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012”.

Per leggere la sentenza integrale:

http://www.lavorosi.it/fileadmin/user_upload/GIURISPRUDENZA_2022/Cass.-sent.-n.-26246-2022.pdf

L’art. 18, co. 7°, L. n. 300/1970

Con riferimento al licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, è noto che, per effetto delle modifiche apportate all’art. 18 St. Lav. dalla L. n. 92/2012, la reintegrazione nel posto di lavoro è ora disposta dal giudice “nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Tale assetto normativo, invero, si deve altresì alla recente pronuncia n. 59/2021 della Corte Costituzionale, la quale ha eliminato il carattere facoltativo della reintegrazione nell’ipotesi in cui il giudice abbia appunto ritenuto insussistente il fatto posto a base del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo.

I dubbi di legittimità sollevati dal Tribunale di Ravenna

Con ordinanza n. 97 del 2021 il Tribunale di Ravenna ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7°, L. n. 300/1970 “nella parte in cui prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra, occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della ‘manifesta’ insussistenza del fatto stesso”.

Punto di partenza da cui muove il Tribunale è il diritto vivente e l’interpretazione, ormai consolidata, che la giurisprudenza ha fornito del requisito della ‘manifesta insussistenza’: esso si configurerebbe come un’assenza, particolarmente evidente e facilmente verificabile in giudizio, dei presupposti che legittimano il recesso, tale da rivelarne il carattere pretestuoso. Il giudice rimettente esclude che tale interpretazione possa essere conforme alla Costituzione e, in linea con tale assunto, delinea diversi profili di presunta illegittimità costituzionale della disposizione in parola.

Viene in primo luogo denunciato un possibile contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, in ragione della differenza di disciplina, ritenuta appunto arbitraria, prevista per il licenziamento disciplinare e per licenziamento per motivo oggettivo: solo nel secondo caso, “senza alcun fondamento logico-giuridico”, è richiesto che l’insussistenza del fatto sia manifesta affinché il rimedio reintegratorio possa essere disposto dal giudice. Secondo il Tribunale di Ravenna, inoltre, il criterio di matrice processuale della “manifesta insussistenza” sarebbe del tutto irrazionale, potenzialmente foriero di “risultati bizzarri ed imponderabili”, rimettendo alla “scelta totalmente discrezionale del giudice la determinazione delle tutele spettanti al lavoratore ingiustamente licenziato, senza fornire alcun criterio serio ed omogeneo, uguale per tutti”. Né si potrebbe sostenere, rileva il giudice rimettente, che tale disciplina sia correlata alla necessità di tutelare più efficacemente l’interesse costituzionale del datore di lavoro alla libertà dell’iniziativa economica privata, determinando unicamente l’effetto di realizzare un “assetto marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore”. Ciò in quanto pone a carico del lavoratore l’onere di provare un fatto dai contorni incerti, qual è appunto il fatto manifestamente insussistente, un fatto negativo che, per di più, rientrerebbe “nella sfera di disponibilità anche probatoria del datore di lavoro”, così rendendo “eccessivamente difficoltoso l’esercizio del suo diritto di agire in giudizio”: in questo senso, la disciplina di legge si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 24 della Costituzione.

La decisione della Consulta

In linea con quanto già affermato con la pronuncia n. 46 del 2000, la Corte Costituzionale ribadisce, innanzi tutto, che la reintegrazione non è l’unico rimedio sanzionatorio del licenziamento illegittimo idoneo a dare attuazione ai principi costituzionali in materia di lavoro delineati dagli artt. 4 e 35 della Costituzione. Tuttavia, ammonisce la Corte, pur nell’ampio margine di apprezzamento di cui il Legislatore dispone per dare attuazione ai predetti principi, è necessario che “la diversità dei rimedi previsti dalla legge” sia “sempre sorretta da una giustificazione plausibile”, dovendo tali rimedi “assicurare l’adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso”.

Inoltre, prima di esporre i motivi per cui il requisito della ‘manifesta insussistenza’ debba ritenersi illegittimo costituzionalmente, la Corte, sia pure in via incidentale, ricorre ad un’importantissima precisazione teorico-dogmatica: il fatto posto a base del recesso per g.m.o (ed alla cui manifesta insussistenza è subordinata, allo stato dell’assetto normativo su cui interviene la pronuncia, la reintegrazione) ricomprende sia le regioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia, “in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”. Con queste poche righe, pertanto, la Corte chiarisce inequivocabilmente che il “fatto posto a base del licenziamento” per g.m.o. si compone di più elementi oggettivi: le ragioni tecnico-organizzative, il nesso causale tra le stesse e il recesso di quel dato lavoratore (elemento la cui sussistenza e verificabilità in giudizio consente di escludere la pretestuosità del singolo recesso), nonché l’impossibilità di utilizzare quel lavoratore aliunde in maniera altrettanto proficua per l’azienda. E’ questo il c.d. obbligo di repechage di creazione giurisprudenziale, un obbligo che il datore di lavoro che ha proceduto al licenziamento deve provare in giudizio di aver adempiuto (sia pure nel tracciato delle allegazioni difensive del lavoratore circa le possibili utilizzazioni alternative del medesimo), posto anch’esso a presidio dell’imprescindibile assenza di pretestuosità del recesso; ciò, in quanto diretto a dimostrare “l’effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale”, aspetti, questi ultimi, sui quali il giudice compie una valutazione di mera legittimità, che non può “sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità (sentenza n. 59 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto)”.

Sottolinea poi la Corte che la previsione di operatività del rimedio reintegratorio circoscritta alle ipotesi di insussistenza manifesta del fatto si spiega in ragione della volontà del Legislatore di circoscrivere il rimedio più afflittivo ai casi di invalidità più gravi del recesso; viceversa, la tutela indennitaria trova applicazione allorquando l’illegittimità del licenziamento è correlata ad aspetti che “esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto”, quale è, ad esempio, “il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile”.

Fatte queste premesse, la Consulta rileva che la previsione che subordina l’operatività della reintegrazione al carattere “manifesto” dell’insussistenza del fatto posto a base del recesso per g.m.o. “presenta profili di irragionevolezza intrinseca” in quanto “è problematico, nella prassi, il discrimine tra l’evidenza conclamata del vizio e l’insussistenza pura e semplice del fatto”. Tale assetto normativo fa sì che la scelta tra il rimedio reintegratorio e quello indennitario non sia ancorata a punti di riferimento chiari ed intellegibili. Non si tratta, precisa la Corte, di svalutare il valore decisorio della “discrezionalità del giudice”, intesa come prudente apprezzamento delle peculiarità del caso concreto “in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata”. Peraltro, aggiunge la Consulta, al giudice viene chiesto di accertare se l’insussistenza del fatto posto a base del recesso sia o meno manifesta in assenza di alcun criterio direttivo certo, posto che “la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”.

Il criterio della manifesta insussistenza, soggiunge la Corte, è altresì irragionevole in quanto non è correlato con la maggiore o minore gravità del vizio di illegittimità del licenziamento, “che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio”. In questo senso, tale criterio si colloca “al di fuori” della logica su cui è strutturato l’intero apparato dei rimedi del licenziamento illegittimo, imperniato com’è “sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”. Ne deriva che la scelta concreta fra due rimedi, quello indennitario o quello reintegratorio, profondamente diversi tra loro quanto alla capacità di “ristorare” il lavoratore illegittimamente licenziato, finisce per dipendere dall’imprevedibile dialettica processuale e da numerose variabili che però sono “slegate” dalla “tipologia del vizio dell’atto espulsivo o dal ricorrere di altri razionali elementi distintivi”.

La Corte, pertanto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, co. 7°, L. n. 300/1970 limitatamente alla parola “manifesta”.

Alcune considerazioni conclusive

A parere di chi scrive, l’originaria formulazione dell’art. 18, co. 7°, L. n. 300/1970 – che richiedeva appunto che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. fosse “manifesta” – non era il portato di una volontà effettivamente “inconsapevole” delle criticità, immediate ed urgenti, che essa poneva, ma era in verità figlia di un “sofferto” compromesso politico che ha consentito di trovare uno spazio applicativo, sia pure ristretto, al rimedio reintegratorio. Si vuole dire, in altri termini, che tale formulazione sembrerebbe essere stata il frutto della contaminazione della “iniziale intenzione” di escludere in radice l’operatività della reintegrazione con riferimento al licenziamento intimato per g.m.o., che appunto si sarebbe in seguito “piegata” al compromesso di rendere estremamente residuali i casi di operatività di tale rimedio. In questo senso, non pare quindi azzardato sostenere che il “disegno” di escludere l’operatività del rimedio reintegratorio per il licenziamento intimato per g.m.o., portato a definitivo compimento con il successivo D. Lgs. n. 23/2015, era invero già delineato, perlomeno nei suoi tratti essenziali, fin dalla L. n. 92/2012.

A seguito della pronuncia n. 125/2022 della Corte costituzionale, più sopra brevemente annotata, è ragionevole prevedere che - in futuro - i maggiori problemi interpretativi che la giurisprudenza sarà chiamata a risolvere, saranno incentrati sulla nozione di “fatto posto a base del licenziamento” per giustificato motivo oggettivo. Per esso deve intendersi solamente la regione economico-organizzativa che è la giustificazione causale del provvedimento organizzativo del recesso o anche il nesso causale tra la prima ed il recesso? Ragionevolezza vorrebbe che anche il nesso causale giochi un ruolo fondamentale e rientri a pieno titolo nella nozione di “fatto”, pena il riconoscimento della possibilità che un licenziamento pretestuoso – quale sarebbe quello che non presenta alcun saldo nesso causale tra la ragione economica e il licenziamento di un dato lavoratore – non sia punito con la più afflittiva delle sanzioni, cioè con la reintegrazione. E quale ruolo riconoscere all’obbligo di repechage? Anch’esso è posto a presidio della prova dell’assenza di pretestuosità del recesso intimato per g.m.o. Che ne sarà, quindi, di un recesso intimato in aperta violazione dell’obbligo di repechage? A seconda di dove si colloca il repechage, se dentro o fuori il nucleo essenziale del “fatto posto a base del licenziamento” per g.m.o. si potrà avere un licenziamento sanzionato con la sola tutela indennitaria o uno sanzionato con la reintegrazione.

L’importante ed inequivocabile inciso operato dalla Corte con la pronuncia n. 125/2022 – con cui ha chiarito che il fatto posto a base del recesso per g.m.o. ricomprende sia le regioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia, “in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore” – dovrebbe consentire di fugare ogni dubbio, rendendo gli interrogativi più sopra abbozzati privi di senso pratico: solo l’ulteriore consolidarsi della giurisprudenza, tuttavia, consentirà di affermare con certezza che la parola “fine” sulle questioni interpretative che affliggono il licenziamento per g.m.o. sia stata effettivamente pronunciata con la sentenza n. 125/2022 della Corte Costituzionale.

Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui:

https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do

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