Sono stato ingiustamente fatto fuori, impugno il licenziamento perché è ritorsivo”.

Capita molto spesso che il lavoratore, dopo aver ricevuto il provvedimento espulsivo, pronunci tali parole.

Ma quando il licenziamento può davvero dirsi ritorsivo?

La domanda è alquanto importante dal momento che tale tipo di licenziamento è stato ricondotto, data l’analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604/1966, 15 della legge n. 300/1970 e 3 della legge n. 108/1990, interpretate in maniera estensiva, che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie previste dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (cfr., altresì, art. 2 del d.lgs. n. 23/2015).

Orbene, la risposta si può agevolmente trovare nelle pronunce della Corte di Cassazione che hanno delineato i tratti caratteristici della fattispecie in esame.

Alla luce di tale orientamento, si può senz’altro affermare che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, assimilabile a quello discriminatorio, costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 21194/2020, nonché Cass. n. 9468/2019 e Cass. n. 23583/2019).

Nella recentissima sentenza n. 1514 del 25 gennaio 2021, la Corte di Cassazione ha chiaramente dimostrato di voler dare seguito al proprio consolidato orientamento.

Difatti, nella pronuncia ora citata, il Supremo Collegio ha ribadito che, in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere:

  • determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso;
  • ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti “insussistente nel riscontro giudiziale”.

Ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini dell’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, co. 1 Statuto dei Lavoratori, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta alla base del licenziamento.

In sintesi, il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se il medesimo motivo non vi fosse stato; in altre parole, questo deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.

Pertanto il giudice di merito, dopo aver riscontrato che il datore di lavoro non ha assolto gli oneri su di lui gravanti in ordine alla dimostrazione del giustificato motivo oggettivo, deve procedere alla verifica delle allegazioni del lavoratore poste a fondamento della domanda di accertamento della nullità per motivo ritorsivo. E solo il positivo riscontro di tali allegazioni dà luogo all’applicazione della più ampia tutela prevista dal citato art. 18, 1° co., l. n. 300/1970.

Come si è sopra accennato, l’onere della prova dell’esistenza di un motivo di ritorsione nel licenziamento e del suo carattere determinante la volontà del datore grava sul lavoratore che lo deduce in giudizio (cfr., in questo senso, tra le tante altre, Cass. 17 giugno 2020, n. 11705) e che, dunque, deve dimostrare che l’intento discriminatorio abbia avuto “efficacia determinativa ed esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso" (tra le altre, Cass. 14 luglio 2005 n. 14816).

La stessa Suprema Corte ha osservato che si tratta di “prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole” (Cass. n 17087/2011).

In questa prospettiva, il giudice di merito ben può valorizzare tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche, appunto, in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. n. 23583/2019 cit.).

Solo in presenza di tale prova il lavoratore avrà allora diritto alla tutela reale piena.

La pandemia da Covid – 19 ha determinato il cambiamento di molte nostre abitudini, oltre all’ introduzione delle disposizioni relative alla normativa diretta a fronteggiare l’emergenza epidemiologica.

Le aule di giustizia sono allora destinate ad essere spettatrici di cause nelle quali i tradizionali istituti del diritto vengono affrontati alla luce delle nuove realtà fattuali.

Questo è quello che è avvenuto recentemente nell’ambito di un giudizio nel quale il Giudice del Lavoro di Arezzo (sentenza n. 9 del 13 gennaio 2021) è stato chiamato a valutare la legittimità di un licenziamento intimato per giusta causa ai tempi del Covid – 19.

Nel caso affrontato, il lavoratore, in servizio presso un punto vendita della datrice di lavoro, era stato licenziato per aver detto ad un cliente, durante il turno notturno, che, se non avesse indossato la mascherina di protezione, o se non si fosse coperto il viso con la felpa, “non gli avrebbe fatto la transazione in cassa per l’acquisto di due prodotti del market”. Secondo la tesi della Società, il lavoratore era stato inadempiente nei confronti degli obblighi contrattuali ed aveva danneggiato gravemente l’immagine dell’azienda.

Il Tribunale di Arezzo, dopo aver negato che le frasi attribuite al lavoratore fossero ingiuriose od offensive, ha valutato le stesse alla stregua di una “reazione verbale giustificata dall’esasperazione per una condotta altrui omissiva, denotante ignorante sottovalutazione del fenomeno pandemico”.

In ogni caso, il rifiuto del servizio non è stato reputato fatto grave perché, oltre ad essere condizionato all’invito a coprirsi, non aveva recato alcun pregiudizio per il mancato acquisto di un pacchetto di sigarette.

Il Giudice ha così escluso non solo la gravità della condotta, ma anche il fatto che il comportamento del lavoratore fosse idoneo a ledere la fiducia alla base del rapporto.

Nell’ambito di un passaggio argomentativo succinto, ma comunque chiaro e condivisibile, il Tribunale ha considerato rilevante il fatto che il lavoratore si fosse “limitato ad esercitare il proprio diritto, costituzionalmente garantito, a svolgere la propria prestazione in condizioni di sicurezza”. Del resto, secondo il Tribunale di Arezzo, l’esimente dello stato di necessità avrebbe consentito al lavoratore, pur in assenza di una specifica disposizione di legge, anche di astenersi dal lavoro, atteso che lo svolgimento della prestazione lo esponeva ad un rischio di danno alla persona.

Sulla base di tali argomentazioni, l’opposizione proposta dal datore di lavoro è stata rigettata, con la conferma della statuizione di reintegra nel posto di lavoro già adottata dal giudice della fase sommaria del rito.

Laddove non è arrivato il buon senso, (questa volta) è approdato il diritto.

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