Con l’ordinanza del 9 febbraio 2022, n. 4117 la Corte di Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione riguardante la sorte del mutuo fondiario concesso in violazione dei limiti di finanziabilità richiamati dall’art. 38, co. 2, del d.lgs. n. 385/1993 (t.u.b.).
Nel ripercorrere il dibattito giurisprudenziale nato intorno alla questione, l’ordinanza interlocutoria ha ricordato che, in un primo momento, la giurisprudenza si era orientata nel senso che la sanzione della nullità prevista dall’art. 117 t.u.b. non potesse essere applicata nel caso di violazione dei limiti di finanziabilità del mutuo previsti dall’art. 38, co. 2, t.u.b. (v. in tal senso le sentenze ‘gemelle’ Cass. 26672/2013 e 27380/2013: "il D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 38, che, a tutela del sistema bancario, attribuisce alla Banca d'Italia il potere di determinare l'ammontare massimo dei finanziamenti, attiene ad un elemento necessario del contratto concordato fra le parti, qual è l'oggetto negoziale, e, pertanto, non rientra nell'ambito della previsione di cui all'art. 117 del medesimo decreto,il quale attribuisce, invece, all'istituto di vigilanza un potere "conformativo" o "tipizzatorio" del contenuto del contratto, prevedendo clausole-tipo da inserire nel regolamento negoziale a tutela del contraente debole; ne deriva che il superamento del limite di finanziabilità non cagiona alcuna nullità, neppure relativa, del contratto di mutuo fondiario" (nello stesso senso Cass. 04/11/2015, n. 22446)”).
Secondo l’indirizzo in esame l’art. 38 del t.u.b., collocandosi a tutela del sistema bancario ed avendo lo scopo di evitare che gli istituti di credito assumano esposizioni eccessive senza adeguate garanzie, costituirebbe una norma di buona condotta (non una norma-atto), la cui violazione può determinare solo l’irrogazione delle sanzioni previste dall’ordinamento ovvero essere fonte di responsabilità.
Successivamente la giurisprudenza ha mutato il proprio orientamento ritenendo che al superamento dei limiti di finanziabilità debba necessariamente conseguire la nullità del mutuo fondiario ferma la possibilità, ove ne sussistano i presupposti, di convertire il mutuo fondiario in un ordinario finanziamento ipotecario (v. Cass. 13/7/2017, n. 17352, “In tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità del D.Lgs. n. 385 del 1993, ex art. 38, comma 2, è elemento essenziale del contenuto del contratto ed il suo mancato rispetto determina la nullità del contratto stesso (con possibilità, tuttavia, di conversione in ordinario finanziamento ipotecario ove ne sussistano i relativi presupposti, su istanza della banca nel primo momento utile successivo alla rilevazione della nullità), e costituisce un limite inderogabile all'autonomia privata in ragione della natura pubblica dell'interesse tutelato, volto a regolare il "quantum" della prestazione creditizia al fine di favorire la mobilizzazione della proprietà immobiliare ed agevolare e sostenere l'attività di impresa”.
La sentenza citata, se, da una parte, ha riaffermato, in linea con le sentenze ‘gemelle’, la non riconducibilità della previsione dell’art. 38 alle nullità testuali previste dall’art. 117 t.u.b., dall’altra, non ha condiviso la restante parte del percorso argomentativo, avendo individuato nella nullità virtuale - in ragione della natura pubblicistica dell’interesse economico nazionale tutelato - la sanzione da comminare al contratto di mutuo nel caso del superamento dei limiti di finanziabilità.
La sanzione della nullità sarebbe conforme all’insegnamento delle Sezioni Unite (Cass. S.U. nn. 26724 e 26725 del 2007), secondo cui “la violazione di una norma imperativa determina la nullità ogni volta che si ripercuote sulla regola negoziale e dunque sia ravvisabile un contrasto tra la norma violata ed il regolamento d'interessi sotteso al negozio”.
Il superamento del limite di finanziabilità di cui all’art. 38 t.u.b. non potrebbe configurare la violazione di una norma-comportamento in quanto, concernendo un elemento relativo alla struttura negoziale (il contenuto), quale la determinazione del "quantum" della prestazione creditizia, incide direttamente sulla fattispecie. La predetta violazione non è correlabile all'area né delle condotte poste in essere in fase pre-negoziale, né di quelle poste in essere nella fase attuativa.
Nonostante l’orientamento inaugurato con la sentenza del 2017 (Cass. n. 17352/2017) si sia ampiamento consolidato nella giurisprudenza successiva (v. ex multis Cass. nn. 19016/2017; 6586/2018; 11201/2018, 13286/2018, 22466/2018, 29745/2018, 17439/2019, 1193/2020), con l’ordinanza interlocutoria in commento la Cassazione ha ritenuto di dover rimettere all’attenzione delle Sezioni Unite alcuni aspetti, posti a fondamento del richiamato orientamento giurisprudenziale.
La Cassazione, in sede di rimessione, si è chiesta, e ciò costituisce il primo nodo problematico, “se nel caso in esame possa realmente configurarsi la nullità di cui all' art 1419 c.c., comma 1, in ragione del riscontro dell'effettivo carattere imperativo della norma violata”.
Secondo l'orientamento prevalente (inaugurato da Cass. 17352/2017), il carattere imperativo può desumersi dalla natura pubblicistica dell'interesse sotteso all’art. 38, co. 2, t.u.b., essendo ispirato ad obiettivi economici generali “attesa la ripercussione che tale tipologia di finanziamenti possono avere sull’economia nazionale”.
Nell’ordinanza interlocutoria, nella prospettiva di una possibile rimeditazione del predetto ragionamento, è stato evidenziato come, d’altra parte, si potrebbe sostenere che la disposizione violata non è costituita da una fonte normativa primaria, quale è certamente l'art. 38, ma da una fonte subordinata, da ravvisarsi nel provvedimento della Banca d'Italia (“Ora, se è vero che il compito istituzionale dall'Autorità di vigilanza è quello di garantire la trasparenza e correttezza dei comportamenti degli istituti di credito, ciò, forse, non è sufficiente per ritenere che ci si trovi al cospetto di un interesse di carattere generale, diretto cioè al perseguimento di obiettivi economici collegati all'economia nazionale” ).
Occorre accertare – continua la Corte - “se le regole prescritte dalla Banca d'Italia, in esecuzione della delega ricevuta dal legislatore, mirino di per sé a garantire il pubblico interesse; oppure mirino esclusivamente ad evitare, come ritenuto dalle sentenze "gemelle" del 2013, che l'istituto di credito assuma un'esposizione finanziaria senza un'adeguata contropartita e garanzia (facendosi riferimento all'art. 38, come norma "volta ad impedire che le banche si espongano oltre un limite di ragionevolezza a finanziamenti a favore di terzi che, se non adeguatamente garantiti, potrebbero portare a possibili perdite di esercizio"); oppure se, ancora, quest'ultimo scopo non sia, addirittura, esso stesso un interesse che, sebbene volto a tutelare in apparenza la posizione di uno solo dei contraenti, indirettamente miri a realizzare una finalità di carattere generale”.
L’interesse alla correttezza del comportamento delle banche, pur avendo innegabili riflessi sul buon funzionamento dell'intero mercato, potrebbe non essere sufficiente a far scattare la nullità virtuale, posto che, a tutela del predetto interesse, sono stati già predisposti precipui poteri di controllo e sanzionatori in capo all'autorità pubblica di vigilanza.
Come ricordato in precedenza, secondo l’orientamento prevalente (Cass. 17352/2017), la violazione dell'art. 38, riguardando la disposizione un elemento strutturale della fattispecie, darebbe luogo a nullità virtuale per violazione di norme imperative.
Anche in relazione a tale punto, la Corte suggerisce una più approfondita riflessione.
Da tale angolazione l’art. 38 t.u.b. “pur conferendo alla Banca d'Italia il potere di determinare la percentuale massima del finanziamento, che costituisce indubbiamente l'oggetto del contratto, non interferisce però sul contenuto del contratto "per aggiunta", cioè prevedendo un ulteriore elemento costitutivo della fattispecie contrattuale, ma solo "per specificazione", imponendo che un elemento intrinseco già presente nel contratto (cioè il suo oggetto) possegga una determinata caratteristica di tipo quantitativo, restando però del tutto invariata la struttura della fattispecie nei suoi fondamentali elementi tipizzati”.
Riprendendo il percorso argomentativo svolto dalle sopra richiamate sentenze ‘gemelle’, la Corte ricorda che la previsione della soglia dell'80% non va ad incidere sul sinallagma contrattuale, ma si limita a disciplinare, attraverso una regola di buona condotta, il comportamento della banca in vista della tutela della sua stabilità patrimoniale.
Un altro aspetto su cui riflettere riguarda, infine, le conseguenze che l'applicazione della sanzione della nullità produce sugli interessi in gioco.
A tal proposito, la Corte richiama quanto affermato dalle sentenze "gemelle" del 2013, secondo cui “far discendere dalla violazione della soglia la conseguenza della nullità del mutuo ormai erogato (e far venir meno la connessa garanzia ipotecaria), condurrebbe al paradossale risultato di pregiudicare, ancor più, proprio quel valore della stabilità patrimoniale della banca che la norma intendeva proteggere”.
La nullità del mutuo sarebbe invece l’unica sanzione possibile per coloro che, valorizzandone il carattere imperativo, sostengono che l’art. 38 non sia una norma volta alla tutela della stabilità della singola banca, ma sia invece diretta a proteggere un interesse pubblico economico nazionale.
D’altra parte, obietta la Corte, non è rilevabile dal contratto il mancato rispetto del limite di finanziabilità del mutuo.
La verifica del reale valore del cespite può avvenire solo attraverso valutazioni estimatorie spesso ricavabili all'esito dell'espletamento di una consulenza tecnica svolta in corso di causa.
Il rispetto del limite di finanziabilità comporta “un oggettivo riscontro fattuale” e non pone dunque una questione di validità delle dichiarazioni negoziali (v. sul punto, nello stesso senso, quanto detto da Cass. 19/11/2018, n. 29745, secondo cui “l'indicazione nel contratto di mutuo fondiario del valore del bene offerto in garanzia non assurge a requisito di forma prescritto "ad substantiam", non essendo previsto come tale dalla disciplina specifica di cui agli artt. 38 e 117 T.U.B. e non rientrando nell'ambito delle "condizioni" contrattuali di carattere economico. Ne consegue che la sua omissione non impedisce l'applicabilità del limite di finanziabilità, che è requisito di sostanza del contratto”).
L’effettivo rispetto del limite di finanziabilità non pone dunque una questione di validità delle dichiarazioni negoziali, ma di "oggettivo riscontro fattuale", ne deriva che l'indicazione del valore dell'immobile nel contratto non ha valore costitutivo.
Secondo la Corte di Cassazione la sanzione della nullità, posto che il rispetto del limite di finanziabilità è demandato ad un accertamento tecnico, “potrebbe apparire sproporzionata se ed in quanto fondata sulla verifica di valori di mercato che presentano un certo margine di opinabilità (destinato inevitabilmente ad accrescersi se, come accade nella maggioranza dei casi, l'indagine demandata al ctu viene svolta a distanza di anni dalla data di stipulazione del contratto). Tanto più che nessuna delle parti potrebbe fare affidamento sulla stabilità e soprattutto sulla validità ab origine del contratto stipulato, essendo ben possibile che il valore immobiliare, sia pure oggetto di iniziale perizia estimativa, sia stato inconsapevolmente sopravvalutato”.
Sanzionare il mutuo con la nullità determinerebbe un vantaggio obiettivamente sproporzionato per il mutuatario il quale realizzerebbe la completa liberazione dell’immobile dall'ipoteca.
Inoltre, nel caso di esecuzione individuale promossa dall'istituto di credito mutuante, la nullità darebbe luogo all’estinzione della procedura per il venir meno del titolo esecutivo, anche in danno degli eventuali creditori intervenuti non muniti di titolo.
Anomalie si verificherebbero anche nel caso di apertura di una procedura concorsuale, perché l'interesse dei creditori al rispetto della par condicio verrebbe ad essere protetto attraverso una sanzione di nullità dell'intero contratto derivante unicamente dall'illegittima costituzione della garanzia fondiaria, anziché essere tutelato con lo strumento della revocatoria.
In conclusione, la Corte, nell’ordinanza interlocutoria suggerisce di verificare se la tutela degli interessi in gioco non sia più efficacemente presidiata attraverso un’operazione che si limiti a risolvere la questione attraverso l’utilizzo di una semplice tecnica di natura qualificatoria, senza utilizzare la sanzione della nullità.
La conversione del contratto nullo presenta delle problematiche di non poco conto, in quanto, richiedendo l’ignoranza di entrambe le parti circa l’invalidità del contratto, risulta di difficile utilizzo. Inoltre, sotto il profilo processuale, richiede che l’istanza venga formulata nella prima difesa utile successiva al rilievo della nullità.
In ultima analisi, la soluzione alternativa, ipotizzata dalla Corte nell’ordinanza interlocutoria, sarebbe quella di riqualificare il contratto “alla stregua di un mutuo ipotecario ordinario, prescindendo dal nomen iuris adoperato dalle parti e sterilizzandolo delle tutele speciali previste dalla legge, in favore del mutuante, per i finanziamenti fondiari… In tal modo il rispetto del c.d. scarto di garanzia finirebbe per incidere non sul piano della validità del contratto, ma unicamente sulla possibilità di applicare, al programma negoziale posto in essere dalle parti, le peculiari conseguenze ricollegate dalla legge al finanziamento fondiario e dunque sulla possibilità per l'istituto di godere della relativa disciplina di favore”.
La parola alle Sezioni Unite…
Per leggere il testo dell’ordinanza integrale clicca qui:https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/4117_02_2022_no-index.pdf
Il licenziamento intimato ad un dirigente in ragione della riorganizzazione aziendale “conseguente a calo dell’attività aziendale”, quest’ultimo a sua volta imputabile alla contrazione economica generale causata dalla pandemia di Covid-19, è nullo per contrarietà a norma imperativa.
E’ questo il decisum di una recente pronuncia con cui la Terza Sezione lavoro del Tribunale di Roma ha definito un giudizio ex art. 1, comma 48, L. n. 92/2012, disponendo la reintegrazione nel posto di lavoro del dirigente illegittimamente estromesso.
La disciplina normativa
Come già rilevato in una breve nota di commento a Trib. Mantova n. 112/2020 comparsa su questo sito (https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-stabilita-del-mercato-del-lavoro-ed-il-blocco-dei-licenziamenti-per-ragioni-economiche-produttive-ed-organizzative/) tra le diverse misure adottate dal Legislatore per far fronte elle esigenze, anche sociali, poste dalla diffusione della pandemia da Covid-19 vi è quella del divieto di licenziamento per ragioni economiche, organizzative e produttive (introdotto dall’art. 46 del D.L. n. 18/2020 e successivamente prorogato da successivi Decreti Legge).
Più in particolare, il c.d. “blocco” dei licenziamenti per ragioni economiche è stato previsto e disciplinato tenendo conto della circostanza per cui – in linea generale ed astratta, e dunque a prescindere dalla, purtroppo ancora attuale, situazione emergenziale – il recesso dal singolo rapporto lavorativo, per ragioni inerenti l’attività produttiva, può essere disposto sia nell’ambito di una procedura collettiva di licenziamento (evento che, come noto, si verifica allorquando la risoluzione del singolo rapporto lavorativo si inserisce in una pluralità di risoluzioni individuali, tutte motivate dalla stessa ragione organizzativa addotta dal datore di lavoro recedente), sia ad un livello meramente individuale, circostanza che si verifica quando il singolo lavoratore viene licenziato ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966, per giustificato motivo oggettivo.
E così l’art. 14 D.L. n. 104/2020, al primo comma, ha previsto che “resti precluso” l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo ai tutti quei datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale istituiti ad hoc (cioè quelli appositamente previsti per fronteggiare la situazione economica imposta dall’emergenza sanitaria) ovvero non abbiano fatto ricorso all’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali; parimenti, ma a livello individuale, il secondo comma prevede che il datore di lavoro non possa procedere ad intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove non abbia fruito dei peculiari trattamenti di integrazione salariale o dell’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali con riferimento al singolo lavoratore che intende licenziare.
La questione posta dal caso concreto e le motivazioni poste a base della decisione
Una delle questioni interpretative che tale disciplina ha posto è quella relativa al suo ambito applicativo: ci si è chiesti, in particolare, se essa trovasse o meno applicazione al rapporto lavorativo dirigenziale. A quanto consta, la pronuncia qui in commento è la prima affermazione giudiziale di applicabilità alla categoria dirigenziale del divieto di licenziamento per ragioni di carattere economico/produttivo. Nonostante l’estensore dell’ordinanza premetta che l’esplicito riferimento all’art. 3 della L. n. 604/1966 (come noto, non applicabile alla categoria dirigenziale) operato dalla disciplina di legge che sancisce il divieto di licenziamento lasci ragionevolmente presumere che essa non debba appunto riguardare i dirigenti, giunge poi a ritenere che tale categoria sia “protetta” dalle iniziative di recesso datoriali motivate da ragioni economiche; e ciò, in base a due distinti percorsi argomentativi, sviluppati anche alla luce del canone ermeneutico dell’interpretazione costituzionalmente orientata.
Il primo tende a valorizzare la ratio sottesa alla previsione del c.d. “blocco” dei licenziamenti e dunque l’esigenza che le conseguenze economiche negative derivanti dalla diffusione della pandemia da Covid-19 non siano “scaricate” sulle spalle dei lavoratori attraverso una soppressione generalizzata dei posti di lavoro da questi occupati. Peraltro, rileva l’estensore, in linea con tale esigenza si pongono le misure di sostegno economico alle imprese simultaneamente varate al divieto di licenziamento per motivi economici/produttivi. Il secondo, invece, fa leva sulla necessità di salvaguardare la ragionevolezza intrinseca della disciplina che sancisce l’anzidetto divieto: se essa, sostiene il Tribunale, esclude i dirigenti dal novero di coloro che – allo stato – possono essere interessati da procedure di licenziamento collettivo, non sarebbe dato comprendere perché gli stessi dirigenti possano invece essere licenziati per giustificato motivo oggettivo, data la sostanziale coincidenza tipologica delle ragioni sottese ad un licenziamento collettivo con quelle sottese ad un licenziamento individuale. In questo senso, afferma il Tribunale, “il riferimento della legge all’art. 3 mira ad identificare la natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso, e non a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto; funzione che, se il legislatore avesse inteso perseguire, si sarebbe presumibilmente tradotta in una diversa tecnica normativa (soggettiva e non tipologica)”.
Considerazioni
La conclusione cui è pervenuto il Tribunale, per quanto suggestiva e foriera di significativi spunti di interesse, si pone in netto contrasto con l’inequivocabile lettera della norma, finendo altresì per realizzare un’applicazione estensiva di una norma eccezionale, qual è appunto quella che, ponendo un divieto assoluto di licenziamento, comprime la libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 Cost. A questo proposito, è fin troppo noto che l’art. 14 delle Preleggi stabilisce chiaramente che “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.
Tale caposaldo del diritto viene radicalmente disapplicato, tant’è che il Tribunale, pur in presenza di una chiara ed univoca volontà legislativa, attraverso la valorizzazione della finalità della legge, finisce per attribuire ad essa un significato diverso da quello che appunto risulta in maniera immediata e diretta da un’interpretazione letterale della stessa. A questo proposito, si rammenta che Cass. n. 5128/2001 ha chiaramente affermato che “nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa”.
D’altra parte, e com’è noto, in presenza di un dato letterale inequivoco della disposizione, anche l’interpretazione costituzionalmente orientata non può condurre il giudice a fuoriuscire dal campo semantico disegnato dalla lettera, imponendosi semmai, a questo punto, la prospettazione, da parte sua, della questione di legittimità costituzionale (così, tra le molte altre, Corte Cost. sentenza n. 78/2012). Pertanto, pure l’argomento imperniato sulla ritenuta (ed ove pure sussistente, data l’obiettiva diversità, anche in termini di impatto socio – economico, di un licenziamento collettivo rispetto ad uno individuale) irragionevolezza della differenza di trattamento tra le due ipotesi di fatto da ultimo evocate, avrebbe semmai dovuto essere posto a base di un incidente di costituzionalità, senza potersi risolvere, invece, in una sostanziale riscrittura del testo della disposizione.
La Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, con sentenza n. 1517 del 25 gennaio 2021 torna ad affrontare la questione della natura e liceità del mutuo contratto allo scopo di estinguere una pregresso debito di natura chirografaria del correntista.
1. Il caso
La vicenda processuale trae origine dalla domanda della Banca di insinuazione al passivo fallimentare per credito derivante da mutuo. Il curatore, nel costituirsi, osservava che nonostante nel contratto di mutuo fosse prevista la destinazione della somma a investimenti immobiliari, l'importo mutuato era servito semplicemente a coprire un precedente scoperto di conto corrente chirografario senza creare una provvista autonomamente utilizzabile, così trasformando un debito chirografario in debito privilegiato ed aveva quindi chiesto accertarsi la nullità del contratto per mancanza di causa, ai sensi dell’art. 1418 c.c.
Il Tribunale adìto dalla Banca in opposizione ex art. 98 Legge Fallimentare accoglieva parzialmente l’opposizione, ammettendo il credito in via chirografaria e, quindi, escludendo la validità/efficacia della sola garanzia ipotecaria, sulla base del rilievo che le parti avevano indicato uno scopo del tutto inesistente sin dall’inizio. Il Giudice di merito, tuttavia, confermava la validità del mutuo sulla base dell’assunto che le parti avevano voluto realmente contrarre un finanziamento a lungo termine.
2. I presupposti per la qualificazione del contratto in termini di mutuo di scopo
La sentenza in commento chiarisce, in primo luogo, che “la mera enunciazione, nel testo contrattuale, che il mutuatario utilizzerà la somma erogatagli per lo svolgimento di una data attività o per il perseguimento di un dato risultato non è per sè idonea a integrare gli estremi del mutuo di scopo convenzionale, per il cui inveramento occorre, di contro, che lo svolgimento dell'attività dedotta o il risultato perseguito siano nel concreto rispondenti a uno specifico e diretto interesse anche proprio della persona del mutuante, che vincoli l'utilizzo delle somme erogate alla relativa destinazione”. Su queste premesse, la Corte ha escluso che il contratto in esame potesse configurarsi in termini di muto di scopo.
Tale statuizione riveste un significativo interesse pratico di carattere generale (interesse nel caso in esame assai attutito dalle conclusioni cui perviene la Corte con riguardo alla questione che affronteremo nel prossimo paragrafo), imponendo all’interprete – sulla base di principi già desumibili dai criteri dagli artt. 1362 ss. c.c. – di non fermarsi alle dichiarazioni, spesso ‘di stile’, inserite nei testi contrattuali, ma di verificare la sussistenza di un effettivo interesse, in capo all’istituto di credito, a che le somme siano concretamente destinate a realizzare le opere programmate dal mutuatario.
3. La natura del mutuo contratto per ripianare il debito
Quanto alla natura del mutuo contratto con lo scopo di estinguere un pregresso debito mediante accredito su conto corrente del debitore della somma mutuata, nella giurisprudenza di legittimità si registrano due oriengamenti contrapposti:
La sentenza in esame afferma, innanzi tutto, che l’accredito della somma oggetto di mutuo sul conto corrente che registra la posizione debitoria del mutuatario costituisce una operazione meramente contabile, atteso che la somma non entra nella piena disponibilità del mutuatario e dunque non determina l’effettivo passaggio del denaro dal mutuante al mutuatario, elemento essenziale del contratto di mutuo e presupposto dell’obbligazione restitutoria.
Su queste premesse, la Corte conclude che l’operazione – finalizzata a ripianare il debito “a mezzo di nuovo "credito", che la banca già creditrice realizzi mediante accredito della somma su un conto corrente gravato di debito a carico del cliente” -non integra gli estremi del contratto di mutuo, bensì quelli di “una semplice modifica accessoria dell'obbligazione” sotto il profilo del differimente del termine di adempimento. Ne discende, quale corollario, che il mutuo in questione non possa legittimare l’ammissione al passivo con privilegio, atteso che l’ammissione al passivo del credito restitutorio vantato dalla banca, trova la propria ragione fondante nell'iniziale scoperto di conto corrente ed ha natura chirografaria.
4. Osservazioni critiche
La sentenza in esame lascia perplessi nella misura in cui non tiene conto che, sotto il profolo strettamente giuridico, l’accredito della somma mutuata sul conto corrente integra una effettiva messa a disposizione del correntista dell’importo mutuato e, quindi, può considerarsi alla stregua di un trasferimento della proprietà delle predette somme, seppur non in termini materiali, ma senz’altro in termini giuridici.
D’altronde, che il dibattito giurisprudenziale relativo alla qualificazione e alla validità dell’operazione di mutuo finalizzata a ripianare un debito pregresso con la medesima banca mutuante, sia tutt’altro che destinato a sopirsi, emerge ove solo si consideri che pochi giorni prima della pubblicazione della pronuncia in commento, la Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con sentenza del 18 gennaio 2021, n. 724 ha reso statuizioni di segno opposto, affermando la validità di operazione analoga a quella esaminata dalla sentenza in esame, sulla base dell’assunto che “l'accredito contabile di una somma equivale alla sua materiale erogazione” e che “la costituzione di una garanzia reale ipotecaria per un preesistente credito chirografario rappresenta causa negoziale pienamente lecita”.
Anche avuto riguardo al principio della par condicio creditorum, la sentenza da ultimo richiamata ha rilevato che “l'eventuale pregiudizio che, in relazione alla predetta operazione, possa determinarsi per i creditori, non implica la nullità del negozio, ma al più, sussistendone i tutti presupposti previsti dalla legge, la possibile revocabilità della garanzia o, in determinate circostanze, dell'eventuale pagamento così operato”.