Con l’ordinanza interlocutoria n. 18903 del 10 luglio 2024, la Seconda Sezione Civile della Cassazione ha rimesso gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di alcune questioni giuridiche di massima importanza riguardanti il mutuo solutorio, cioè quel mutuo utilizzato per il ripianamento di debiti pregressi.
1. - I fatti oggetto di causa
Una banca otteneva un decreto ingiuntivo contro due propri clienti, i quali venivano condannati a pagare l’importo di € 50.742,86 a titolo di saldo negativo del conto corrente acceso presso la banca stessa e garantito da ipoteca.
Contro il predetto decreto ingiuntivo i clienti proponevano opposizione davanti al Tribunale di Ferrara, deducendo di avere stipulato con la Banca nel corso del tempo ben cinque contratti di mutuo, il primo ipotecario nel 1990, il secondo ipotecario nel 1995, due nel 1998, dei quali uno chirografario e l’altro ipotecario, e l’ultimo nel 2000, quale mutuo ipotecario per Lire. 900.000.000 con contestuale apertura di credito su conto corrente e sulla base del quale la creditrice aveva proposto il ricorso per decreto ingiuntivo.
In particolare, con l’opposizione denunciavano l’illegittimità del comportamento della Banca per aver concesso mutui sempre regolati su conti correnti ipotecari che servivano a pagare il debito pregresso, già maturato per capitale e interessi. Rilevavano altresì che la Banca aveva solo apparentemente erogato le somme, posto che le stesse non erano mai uscite dalle casse dell’asserita mutuante, ma erano state utilizzate quale pagamento dei mutui e delle aperture di credito precedenti.
Contro la sentenza del Tribunale di Ferrara n. 195/2016 che aveva solo parzialmente accolto l’opposizione, i clienti. proponevano appello, poi rigettato dalla Corte d’Appello di Bologna con la sentenza n. 905/2020, pubblicata il 4 marzo 2020, condannando gli appellanti alla rifusione delle spese di lite.
Nello specifico la Corte d’appello di Bologna aveva ritenuto infondate le deduzioni sulla nullità del contratto di mutuo per mancata erogazione della somma ritenendo che l’accredito sul conto corrente equivaleva alla consegna prevista dall’art. 1813 c.c.
Il Giudice di secondo grado riteneva altresì che il fatto che la somma mutuata era stata poi utilizzata dalla Banca per estinguere il mutuo precedente non escludeva l’avvenuta consegna e dimostrava l’esistenza di una causa concreta del negozio, che era servito al debitore a ripianare le passività pregresse.
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna i clienti hanno proposto ricorso per cassazione affidato a nove motivi.
2. - I motivi di ricorso per cassazione
Con il primo motivo di ricorso è stata censurata la sentenza impugnata per avere la Corte d’appello di Bologna ritenuto che la decisione di impiegare le somme mutuate per estinguere i debiti precedenti fosse stata una libera scelta dei ricorrenti al fine di mantenere il rapporto con la Banca. Secondo i ricorrenti risultava del tutto mancante la prova degli atti di disposizione del denaro.
Il giudice di secondo grado avrebbe dovuto spiegare da dove avesse ricavato che le operazioni erano state volute e autorizzate dai ricorrenti.
Secondo i ricorrenti, in mancanza di dimostrazione dell’accordo sulla destinazione della somma, “viene confermata la tesi che la traditio era stata assente, in quanto unilateralmente e contestualmente la Banca aveva accreditato e stornato la somma di Lire. 897.000.000 mediante un mero giroconto”.
La Corte d’appello di Bologna avrebbe dunque erroneamente escluso la rilevanza del precedente costituito dall’ordinanza della Cassazione n. 20896 del 2019, poiché secondo i ricorrenti anche nel loro caso “non è avvenuto alcun trasferimento di proprietà ma una semplice operazione contabile, definita tecnicamente dalla Banca "operazione di giro", con la quale la Banca ha utilizzato le somme per estinguere i finanziamenti pregressi dei correntisti, in assenza di alcuna istruzione in tal senso”.
Il mero accredito sul conto corrente a cui consegua l’immediata riappropriazione autonoma delle somme da parte della Banca mutuante, secondo i ricorrenti, impedisce “di fare ritenere acquisita la disponibilità delle somme in capo al mutuatario, in quanto nel caso di specie l’operazione non risultava autorizzata dai ricorrenti”.
Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti hanno evidenziato che l’estratto conto del 31 dicembre 2000 qualificava come “operazione di giro” quello che la Corte d’Appello aveva qualificato erroneamente come mutuo. Secondo i ricorrenti il giudice di secondo grado avrebbe dovuto prendere posizione sul problema della valenza dell’affermazione contenuta nel documento e, ritenendola come ammissione di un fatto a sé sfavorevole, cioè come ammissione di non avere mai messo a effettiva disposizione del correntista le somme oggetto del mutuo inesistente, avrebbe dovuto accogliere l’impugnazione.
3. - L’ordinanza interlocutoria: gli orientamenti giurisprudenziali a confronto
Sulle questioni poste dai primi due motivi di ricorso, relative alla qualificazione del cosiddetto ‘mutuo solutorio’, si sono registrate soluzioni non uniformi nella giurisprudenza di legittimità.
Di tale contrasto la Cassazione dà atto nell’ordinanza interlocutoria in commento, auspicando l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.
Secondo l’orientamento prevalente, il mutuo solutorio – cioè quel mutuo stipulato al fine di ripianare una pregressa esposizione debitoria - non sarebbe nullo e non potrebbe essere qualificato come una mera dilazione del termine di pagamento del debito preesistente oppure quale pactum de non petendo “poiché l’accredito in conto corrente delle somme erogate è sufficiente a integrare la datio rei giuridica propria del mutuo e il loro impiego per l'estinzione del debito già esistente purga il patrimonio del mutuatario di una posta negativa” (v. Cass. n. 23149 del 2022).
Il predetto indirizzo maggioritario si pone in continuità con alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità più risalenti nel tempo – e cioè Cass. n. 5193 del 1991 e Cass. n. 1945 del 1999 – secondo cui “il perfezionamento del contratto di mutuo, con la consequenziale nascita dell'obbligo di restituzione a carico del mutuatario, si verifica nel momento in cui la somma mutuata, ancorché non consegnata materialmente, sia posta nella disponibilità del mutuatario medesimo, non rilevando, a detto fine, che sia previsto l'obbligo di utilizzare quella somma a estinzione di altra posizione debitoria verso il mutuante”.
In senso difforme si è espressa altra parte della giurisprudenza di legittimità, sostenendo che “l’utilizzo di somme da parte di un istituto di credito per ripianare la pregressa esposizione del correntista, con contestuale costituzione in favore della banca di una garanzia reale, costituisce un’operazione meramente contabile in dare e avere sul conto corrente, non inquadrabile nel mutuo ipotecario, il quale presuppone sempre l'avvenuta consegna del denaro dal mutuante al mutuatario; tale operazione determina di regola gli effetti del pactum de non petendo ad tempus, restando modificato soltanto il termine per l'adempimento, senza alcuna novazione dell’originaria obbligazione del correntista” (v. Cass. n. 1517 del 2021 oggetto di un nostro precedente commento a cura di S. Guadagno, Quale è la natura del mutuo contratto con lo scopo di estinguere un pregresso debito?).
L’indirizzo minoritario si fonda sul fatto che il mutuo solutorio provoca l’effetto sostanziale di dilatare le scadenze dei debiti pregressi.
La dottrina, facendo leva sul fatto che l’art. 1231 cod. civ. non attribuisce un effetto novativo alle modificazioni accessorie dell’obbligazione, ha evidenziato come “tra le diverse modificazioni non novative di un rapporto obbligatorio siano annoverate dalla giurisprudenza anche l'apposizione di diverse condizioni economiche, la modificazione di clausole relative al tasso di interessi e l'aggiunta di garanzie”
Il rapporto obbligatorio, seppur modificato, in forza dell’orientamento in esame, “conserva la propria precedente identità anche dopo la conclusione del mutuo solutorio; ciò in quanto manca, per qualificare il mutuo solutorio in termini di novazione, anche l'animus novandi, posto che nei contratti di mutuo solutorio non si rintraccia in genere alcuna espressa e inequivoca volontà di estinguere l'obbligazione precedente”.
L’indirizzo minoritario se, da una parte, non nega che per il perfezionamento del mutuo sia sufficiente la dazione giuridica delle somme e che l’accredito in conto corrente possa bastare a questo fine; dall’altra, afferma che la traditio deve realizzare il passaggio delle somme dal mutuante al mutuatario, e cioè comportare l’acquisizione della loro disponibilità da parte del mutuatario, effetto che non si ravvisa “nel caso in cui la banca già creditrice con tali somme realizzi il ripianamento del precedente debito”.
In conclusione, nell’ordinanza interlocutoria in commento, la Corte di Cassazione si è chiesta “se sia corretto ritenere che il ripianamento delle precedenti passività eseguito dalla Banca autonomamente e immediatamente con operazione di giroconto, […], soddisfi il requisito della disponibilità giuridica della somma a favore del mutuatario, per cui il ripianamento delle passività abbia costituito una modalità di impiego dell'importo mutuato entrato nella disponibilità del mutuatario; in caso di risposta positiva, ci si chiede se in tale ipotesi il contratto di mutuo possa costituire anche titolo esecutivo”.
La Corte ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Prima Presidente, affinché possa valutare l'opportunità di assegnare la predetta questione allo scrutinio delle Sezioni Unite.
Per leggere il testo integrale dell’ordinanza clicca qui
https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/18903_07_2024_civ_noindex.pdf
Con l’ordinanza interlocutoria n. 16477 del 13 giugno 2024, la Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di particolare importanza attinente alla possibilità di configurare la tacita rinuncia dei crediti della società, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, come effetto automatico della cancellazione dal registro delle imprese, con conseguente estinzione, nella pendenza del giudizio teso a farli accertare.
Nell’ordinanza in commento, la Cassazione, dato atto dell’esistenza di un contrasto sul punto, ha ricostruito i vari orientamenti giurisprudenziali.
A partire dalla sentenza n. 6070/2013 delle Sezioni Unite che ha chiarito che “qualora all'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale, tuttavia, dal lato attivo, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, “con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo”, si sono sviluppati due indirizzi.
Un indirizzo conforme ritiene che l'estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, determini anche l'estinzione delle mere pretese azionate, nonché dei diritti ancora incerti o illiquidi.
Espressione di tale principio è sicuramente Cass., Sez. 1, n. 25974/2015 secondo cui “l'estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, non determina il trasferimento della corrispondente azione in capo ai soci, atteso che dal fenomeno di tipo successorio derivante dalla suddetta vicenda, riguardante esclusivamente gli eventuali rapporti giuridici (afferenti le obbligazioni ancora inadempiute, oppure i beni o i diritti non compresi nel bilancio finale di liquidazione) non venuti meno a causa di quest'ultima, esulano le mere pretese, benché azionate in giudizio, e i diritti ancora incerti o illiquidi necessitanti dell'accertamento giudiziale non concluso, il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente, quindi, di ritenere che la società vi abbia implicitamente rinunciato con conseguente cessazione della materia del contendere”.
Nel solco di questo indirizzo si è inserita Cass., Sez. 3, n. 15782/2016 precisando che si verificherebbe una sorta di presunzione qualificata di rinuncia alle pretese così definibili.
In forza della predetta presunzione non si determina alcun fenomeno successorio nella pretesa sub iudice, “sicché i soci della società estinta non sono legittimati ad impugnare la sentenza d'appello che abbia rigettato questa pretesa”.
Le conclusioni di cui sopra non sono state condivise dall’orientamento giurisprudenziale successivo.
In particolare, per Cass., Sez. 1, n. 9464/2020 la cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio, non determinerebbe l'estinzione della pretesa azionata, “salvo che il creditore abbia manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito comunicandola al debitore e sempre che quest'ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare”.
Anche per Cass, Sez. 6-1, n. 30075/2020 non può ritenersi automaticamente rinunciato il credito controverso “atteso che la regola è la successione in favore dei soci dei residui attivi, salvo la remissione del debito ai sensi dell'art. 1236 cod. civ., che deve essere allegata e provata con rigore da chi intenda farla valere, dimostrando tutti i presupposti della fattispecie, ossia la inequivoca volontà remissoria e la destinazione della dichiarazione ad uno specifico creditore”.
Ponendosi in contrasto con i predetti precedenti giurisprudenziali, la Cassazione con la sentenza, Sez. 3, n. 21071/2023 ha invece ritenuto che: “la successione dei soci non opera in relazione ai crediti illiquidi e inesigibili non compresi nel bilancio finale di liquidazione, i quali si presumono tacitamente rinunciati a beneficio della sollecita definizione del procedimento estintivo della società, salva la prova contraria da parte di colui che intenda far valere la corrispondente pretesa, senza che assuma rilievo, a tal fine, la dichiarata qualità di ex socio o di liquidatore, non necessariamente implicante la successione dal lato passivo nel correlativo obbligo”.
Ricostruito il contrasto giurisprudenziale sul tema, la Corte, nell’ordinanza interlocutoria in commento, ha poi rilevato come l’orientamento sotteso alla pronuncia delle Sezioni Unite – e che propende per il verificarsi di una presunzione assoluta di rinuncia, correlata a un intento abdicativo di per sé discendente dalla cancellazione – determini non poche criticità.
La Cassazione ha evidenziato come sia irrazionale configurare come elemento distintivo l’idoneità della posta creditoria a essere iscritta nel bilancio finale, ponendosi il predetto criterio discretivo in contrasto col principio contabile generale per cui “ogni credito, in verità, ancorché illiquido o incerto, va iscritto (e quindi può essere iscritto) in bilancio al valore presumibile di realizzo (art. 2426 cod. civ.)”.
Altresì problematica è la configurazione di un’automatica riconduzione della cancellazione dal registro delle imprese alla fattispecie della rinuncia, “pur in presenza di circostanze logicamente non compatibili, come la coltivazione del giudizio per l’accertamento del credito da parte del liquidatore”.
In ragione delle oggettive difficoltà riscontrate, le due sentenze dapprima citate – ci si riferisce a Cass. n. 9464/2020 e a Cass. n. 30075/2020 – hanno trovato un punto di equilibrio nell’affermazione di una presunzione inversa, escludente ogni automatismo (“la cancellazione della società non determina la automatica rinuncia del credito controverso, perché la remissione del debito presuppone una volontà inequivoca in tal senso, che deve essere specificamente allegata e provata”.
Con Cass. n. 21071/2023 la Terza Sezione della Cassazione ha posto nuovamente al centro la questione riguardante l’automatismo, ma questa volta dal punto di vista della ripartizione dell’onere della prova avendo affermato che “la volontà abdicativa si presume fintanto che non sia dimostrato il contrario, vale a dire che il credito, originariamente azionato dalla società e per definizione illiquido, non è stato implicitamente rinunciato”.
Rilevato il predetto contrasto giurisprudenziale, la Cassazione, dando altresì atto che, per la particolare importanza della questione, la stessa sia suscettibile di riproporsi in un numero indeterminato di casi, ha rimesso gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
A distanza di soli 6 giorni dalla sentenza n. 12449 del 2024, le Sezioni Unite della Cassazione sono intervenute nuovamente – e sia pure con una pronuncia puramente in rito, per le ragioni delle quali si dirà subito dopo - sulla questione dei “super interessi” di cui all’art. 1284, comma 4, c.c.
Questa volta le Sezioni Unite con la sentenza n. 12974 del 13 maggio 2024 si sono pronunciate a seguito del rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c. disposto dal Tribunale di Parma con l’ordinanza del 3 agosto 2023.
In quella sede, il giudice remittente aveva disposto il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione della questione di diritto riguardante l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 1284, comma 4, c.c. ai ‘crediti di lavoro’ e alle obbligazioni derivanti da responsabilità extracontrattuale (per una più ampia descrizione della ordinanza del Tribunale di Parma si v., sul nostro sito, Applicabilità dell’art. 1284, co. 4, c.c. ai ‘crediti di lavoro’: una questione controversa).
Con la citata sentenza n. 12449 del 2024 (per un commento della quale v. l’articolo di Stefano Guadagno, Gli interessi legali sono quelli del 1° comma dell’art. 1284 c.c. se non risulta diversamente dal titolo esecutivo), la Cassazione a Sezioni Unite ha enunciato il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
La predetta pronuncia ha fatto venir meno uno dei presupposti di ammissibilità del rinvio ai sensi dell’art. 363 - bis c.p.c. sollevato dal Tribunale di Parma e costituito proprio dalla necessità della decisione della questione di diritto per la definizione anche parziale del giudizio (cfr., in particolare, il n. 1 dell’art. 363 – bis).
Infatti, nel caso affrontato dall’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Milano oggetto della sentenza delle S.U. n. 12449/2024, così come nel caso affrontato dall’ordinanza del Tribunale di Parma, che si riferiva ad un giudizio di opposizione a precetto, il titolo giudiziale si limitava a disporre il pagamento degli interessi senza alcuna specificazione.
Atteso che requisito del rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c. è che la “questione è necessaria alla definizione anche parziale del giudizio”, la mancata specificazione del tipo di tasso d’interesse, ha di fatto assorbito tutte le altre, proprio perché ha fatto venir meno uno dei presupposti del rinvio, le Sezioni Unite hanno dichiarato l’inammissibilità del rinvio pregiudiziale e rimesso gli atti al Tribunale di Parma.