Con la sentenza del 1° febbraio 2022, n. 3086 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno individuato i limiti dell’accertamento peritale rintracciandoli nel principio della domanda e nel principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, “entrambi espressione di un principio dispositivo di ordine sostanziale che identifica solo nella parte il titolare del potere esclusivo di disporre dell’interesse materiale sotteso al proprio diritto”.

Il ctu, attraverso il suo apporto di competenze specialistiche e tecniche, coadiuva e integra l’operato del giudice e ripete da quest’ultimo, con riguardo all’incarico affidatogli, anche i poteri processuali.

Così, se il principio dispositivo sotteso al processo vincola il giudice, allo stesso modo, la consulenza deve sottostare ai medesimi limiti.

Una prima conseguenza del predetto ragionamento è il divieto della consulenza esplorativa. L’accertamento peritale non può avere lo scopo di sollevare la parte onerata dal fornire la prova o di supplire alle sue mancate allegazioni.

Altro limite è quello rappresentato dall’art. 62 c.p.c. in forza del quale l’attività del consulente è destinata ad esaurirsi nell’ambito delle indagini commesse dal giudice.

L’impianto normativo così delineato impone dunque al consulente di non allargare le indagini affidategli ai c.d. ‘fatti avventizi’ ovvero ai fatti costitutivi della domanda e ai fatti modificativi o estintivi di essa che non abbiano formato oggetto dell’attività deduttiva delle parti.

Laddove il consulente, nel rispondere ai quesiti sottopostigli, provveda all’accertamento di fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, viola il principio della domanda ed il principio dispositivo.

Le Sezioni Unite giungono alla conclusione che il predetto comportamento sia “fonte di nullità assoluta rilevabile d’ufficio o, in difetto, di motivo di impugnazione da farsi valere ai sensi dell'art. 161 c.p.c.”.

D’altra parte, le Sezioni Unite, nel riaffermare i limiti superiori (principio dispositivo) e i limiti inferiori (art. 62 c.p.c.) entro cui devono restare le indagini del consulente, ricordano anche che lo scopo del processo non può essere quello di dare luogo ad una rigida applicazione di regole, segnatamente, di ordine formale, ma deve mirare a garantire il conseguimento di una decisione per quanto più possibile giusta nel pieno rispetto degli artt. 24 e 111 della Costituzione e in coerenza con l’art. 6 Cedu.

Da ciò deriva che il consulente, sempre nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, è libero di accertare tutti i fatti inerenti all’oggetto della lite il cui scrutinio si rende necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non si tratti dei fatti principali che, come abbiamo detto prima, è onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni.

In tal caso, affermano le Sezioni Unite, “l'accertamento di fatti diversi dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d'ufficio, o l'acquisizione nei predetti limiti di documenti che il consulente nominato dal giudice accerti o acquisisca al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli in violazione del contraddittorio delle parti è fonte di nullità relativa rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all'atto viziato o alla notizia di esso”.

Un’eccezione al già descritto impianto normativo è rintracciabile nell’art. 198 c.p.c. che disciplina l’esame contabile.

Si tratta di una norma eccezionale, che deve la sua specialità “alla particolare natura delle materie su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi, le cui elevate difficoltà tecniche, imputabili segnatamente alla necessità di scrutinare sovente un'ingente mole di documenti che adottano un linguaggio specialistico e non si prestano ad un'interpretazione di senso comune, esigono la nomina di un esperto in grado di chiarirne la portata rispetto a quanto è oggetto di lite e di offrire con ciò dati conoscitivi ed elementi di prova rilevanti ai fini della decisione”.

Questa complessità delle materie riverbera i suoi effetti necessariamente anche con riferimento all’attività di allegazione delle parti, che potrebbero incontrare difficoltà nella corretta valorizzazione dei temi decisionali e, al tempo stesso, dei temi probatori postulati dal giudizio.

Pertanto, nelle controversie aventi ad oggetto siffatte materie di complessità tecnica, la norma speciale consente al consulente contabile anche l’esame di quei documenti che, ancorché afferenti alla prova di fatti principali, le parti non siano state in grado di individuare e di indicare tempestivamente.

In breve, “la specialità dell'art. 198 c.p.c., sta dunque nel consentire espressamente al consulente contabile l'esame di documenti non prodotti in giudizio, anche se questi riguardino fatti principali ordinariamente soggetti ad essere provati per iniziativa delle parti”.

In conclusione, con specifico riferimento all’esame contabile, le Sezioni Unite affermano il seguente principio di diritto: “il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell'osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall'attività di allegazione delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se essi siano diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni”.

Per leggere il testo della sentenza integrale clicca al seguente link:https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/3086_02_2022_no-index.pdf

Con la sentenza n. 12154 del 7 maggio del 2021 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute a comporre un contrasto giurisprudenziale sorto intorno all’individuazione del momento da cui debba aver corso, per la parte che non sia fallita, il termine per la riassunzione del giudizio nel caso di interruzione ex art. 43, comma 3, l. fall.

La questione era stata rimessa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza interlocutoria n. 21961 del 12 ottobre 2020, che aveva ripercorso l’ampio dibattito giurisprudenziale sorto sul tema (v. https://www.studioclaudioscognamiglio.it/interruzione-ex-art-43-l-f-e-decorrenza-del-termine-per-la-riassunzione-del-giudizio/ ).

L’interrogativo posto ai giudici di legittimità è il seguente: l’evento interruttivo costituito dal fallimento di una delle parti può considerarsi conosciuto, ai fini della decorrenza del termine di cui all’art. 305 c.p.c., dalla parte non fallita per aver ricevuto quest’ultima dal curatore l’avviso ex art. 93 l. fall. destinato ai creditori e conseguentemente essersi insinuata al passivo o si ritiene necessaria una declaratoria di interruzione del processo da parte del giudice in udienza?

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite aderiscono al secondo assunto, in forza del principio per cui: "in caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo (con oggetto i rapporti di diritto patrimoniale) che ne deriva ai sensi della L. Fall., art. 43, comma 3, il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all'art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi della L. Fall., artt. 52 e 93 per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell'art. 176 c.p.c., comma 2, va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata - ai predetti fini - anche dall'ufficio giudiziario, potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì d'ufficio, allorchè gli risulti, in qualunque modo, l'avvenuta dichiarazione di fallimento medesima".

Con la pronuncia in commento le Sezioni Unite cercano un contemperamento tra l’esigenza del curatore, per essere messo nelle condizioni di poter difendersi nel giudizio interrotto, di conoscere quali siano i processi pendenti di cui è parte il fallito e quella della parte non colpita dall’evento interruttivo che necessita di sapere che una delle altre parti del giudizio è stata dichiarata fallita. La dichiarazione giudiziale è lo strumento conoscitivo idoneo a tenere insieme le predette esigenze in quanto “riunisce le qualità istituzionali della fonte privilegiata (il soggetto emittente) alla certezza dell’inerenza del fallimento esattamente al processo su cui quello incide (affermata proprio dal giudice che ne è singolarmente investito)”.

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